Sei
Giulio aveva
chiesto due giorni di ferie: giovedì ventisei e venerdì ventisette maggio. Alla
moglie aveva raccontato che sarebbe stato fuori città per lavoro. Ed eccolo
adesso: scappato da casa alle sette e venti, senza un saluto per lei, annodato
fra la voglia di tornare, la necessità di abbracciarla, di raccontarle tutto,
di sopportare il prezzo della verità ma insieme spinto altrove, verso la fuga o
l’approdo da Lucia.
Aveva preso l’auto
indirizzandola fuori città. Pensava alla guida come un principiante, gli
tremavano le mani, aveva frenato senza necessità, sudava. All’idea che un
altro, forse satana, forse un virus, lo stesse guidando verso
l’autodistruzione, pensò di andare al camposanto, dove erano sepolti suo padre
e sua madre. Anche a loro aveva chiesto di poter tornare quello di sempre. Era
poi ripartito verso la collina.
‘Devo camminare’ e
scelse il ripido sentiero di sassi che conduceva in alto, al santuario della
Madonna Nera.
Lasciò l’auto ad
Oronco, vicino all’edicola con la Madonna del Valtorta. Prese il ripido
acciottolato di via Conventino. Da una delle prime ville, una bella dimora
avvolta nell’edera, sentì uscire il canto di una donna. La riconobbe come colei
che chiamavano la figlia dell’Angelo Buttè, una cantante del coro della Scala
di buona fama.
Benché procedesse
per piccoli passi, dal ritmo lento, Giulio sudava e ansimava; pesava novanta
chili, aveva smesso di fumare da poco, era ingrassato e fuori forma. Prima di
sbucare sulla rizzàda del lungo viale delle cappelle, intuì
l’avvicinarsi di un paio di persone che lo seguivano. Ormai l’avevano raggiunto
quando sentì uno dei due dire all’altro: “Il coraggio non mi manca, è la paura
che mi frega.” L’altro rise. Poi i due lo superarono senza salutarlo.
Sbucò alla Prima
Cappella, dedicata all’Annunciazione. S’era convinto che avrebbe dovuto parlare
con Matilde, quanto meno avvisarla, mentire ma farsi vivo. La chiamò. Il suo
cellulare era spento. Pensò di telefonare alla segreteria, di farsela passare.
Ma perché non chiamava lei?
Superata la
Seconda Cappella, che riproponeva l’episodio evangelico della visita di Maria
alla cugina Elisabetta, si fermò; davanti a lui la Quarta Cappella sbucava dal
bosco, solitaria: dietro a lei cielo e qualche nuvola. Guardò alla sua destra,
l’ampio panorama sfocato dalla calura; si concentrò sul campanile di
Sant’Ambrogio e, più a sud, sul centro di Varese, in mezzo al quale distingueva
a fatica il campanile del Bernascone.
Riprese
l’acciottolato. Notò, alla Terza Cappella, che il dipinto realizzato da Renato
Guttuso una ventina d’anni prima, una Fuga in Egitto dai colori vivaci, si
stava scrostando in alto a destra, nell’azzurro del cielo. Poi venne la ripida
ascesa fra la Quarta e la Quinta, il piano dopo il Secondo Arco, la grotta con
le statue delle Beate Caterina e Giuliana, una svolta a gomito e una panca di
pietra, sulla quale si sedette. Fu lì che provò per la seconda volta a chiamare
Matilde, ma non ottenne risposta.
***
Invece aveva
chiamato Lucia. E lui a dirle che stava bene, che domani sarebbe stato il loro
giorno, ma non la voleva più. Temeva il fallimento. Come dirle che era depresso
quando lei se l’immaginava affidabile com’era salda la roccia, sopra la quale
avevano edificato, quattrocento anni prima, il santuario dedicato alla Madre
del Monte Sacro di Varese?
Un gruppo di
cinque signore non più giovani scendeva verso di lui dall’Ottava Cappella. Per
il suo umore, parlavano a voce sin troppo sostenuta: euforiche come ragazzine,
si rubavano l’un l’altra la scena, quasi che l’argomento dell’una fosse di gran
lunga più interessante di ogni altra questione proposta dalle altre. Parlavano
di diete e di figli. La più bassa di statura si portava appresso un barboncino
nero come pece. “La mia Cherie ha sete” disse. “Per forza, con questo
caldo!” fu la sola risposta che ottenne.
Il gruppo di
signore aveva da poco svoltato a sinistra quando sentì un canto, in discesa dal colle. La voce s’avvicinava, e
con lei una donna non più giovane. Cantava la Salve Regina in latino a piena
voce, senza stonare, con un timbro delicato. Quando fu di fianco alla panca in
pietra smise il canto, lo salutò con un sorriso, quindi riprese a pregare. In
gioventù doveva esser stata una gran bella ragazza.
Giulio riattaccò
con lentezza il cammino. Guardava a terra, i suoi piedi e le pietre lisce che
avevano sopportato per secoli il peso dei pellegrini, gli zoccoli dei cavalli e
le ruote dei carri. Provò lo sconforto appagante d’essere vittima. Dopo un po’
alzò la testa, guardò in alto: il paese, detto Madonna del Monte, pareva finto,
da presepe. Dalla pendenza della Decima Cappella, quella della Crocifissione,
vide scendere qualcuno, che teneva al guinzaglio due cani. Gli animali
cominciarono ad abbaiare e ad agitarsi quando fra lui e loro mancavano almeno
cinquanta metri. E più la distanza si riduceva, più la rabbia dei cani
cresceva. Quando si incrociarono riconobbe un pastore tedesco e un fox
terrier a pelo liscio, mentre non conosceva la giovane padrona, che cercò
di scusarsi per quell’aggressività senza motivo. Lui disse: “Devo avere un
aspetto poco rassicurante.” Lei sorrise e diede una strattonata agli animali,
tendendo il guinzaglio e riprendendoli con una sgridata dall’effetto nullo.
Più su, alla
Dodicesima Cappella, rallentò ancora e venne superato da un podista: basso di
statura, brevilineo dalle cosce muscolose, in canottiera, sbuffava rubizzo in
viso come un ubriaco. Alzò la mano destra per salutare Giulio, o forse per
mandare al diavolo quella sua fissa salutistica.
Alla
Quattordicesima, dove parte l’ultima pendenza della rizzàda che conduce
al Mosè e, per gradini, al santuario, un uomo alto, magro e all’apparenza
triste stava ritto in piedi. Teneva in mano un piccolo blocco da disegno con
copertina in pelle: stava schizzando a matita quell’ultima ascesa, la lontana
statua del Mosè e il campanile.
Dopo oltre un’ora
di cammino arrivò nei pressi del santuario. Suonavano le dieci. Era provato.
Giunto sul piccolo sagrato, con la statua di Papa Paolo VI e qualche pellegrino
col rosario in mano e le preghiere fra i denti, si sedette sul muretto,
all’ombra.
Dal borgo saliva
una brezza che ristorava. Più a sud s’apriva la piana verso la metropoli, campi
coltivati e laghi, opifici e case. Un panorama che venivano a gustarsi in
molti, scomodandosi dalla Germania, dalla Francia, dall’Olanda, dalla
confinante Svizzera e persino dagli Stati Uniti.
Guardò verso il
basso. Pianse. Spalancò la bocca per lasciar entrare il vento, che gli
soffiasse fuori il veleno che s’era annidato nei polmoni, nello stomaco, nel
cervello. Guardò ancora verso la scarpata e valutò che, da lì, sarebbe morto di
sicuro. O forse sarebbe rimasto vivo, ma storpio e sano di mente. La testa
girava. Gli parve che qualcuno lo invitasse a vincere ogni legame con la vita.
Sentì il contatto di mani che si impossessavano del suo corpo. Barcollò verso
il baratro. Lasciò cadere pesantemente il suo ventre contro la paratia di
pietra, s’aggrappò con le mani al muretto, le ginocchia a terra. Nessuno lo
vide. I pellegrini erano tutti entrati nel luogo di culto.
Scappò dentro
anche lui.
***
Era da poco iniziata la Messa. L’interno era buio, una
grotta. Giulio non entrava al santuario da anni. Si mise in fondo, l’ultima
panca. Non più di venti persone sedevano ad ascoltare il prete, giovane, con la
barba lunga, forse un missionario. La statua di Maria era sopra il tabernacolo,
sotto vetro. Fissò la statua, guardò il celebrante e intanto respirava, a
lungo, con calma, ripetendosi che se c’era stato un bel sogno, ora il sogno era
tremendo ma era pur sempre sogno. Si sarebbe svegliato.
Si sedette. Prese
il fazzoletto e si passò la fronte. Alzò lo sguardo: i putti, gli angeli, i
patriarchi aggrappati alla volta barocca lo fissavano, facevano smorfie,
muovevano il capo. Atterrito si rialzò, stava per uscire quando sentì che se
non parlava con qualcuno sarebbe impazzito. Chiese se confessavano e un’anziana
gli indicò il confessionale con la luce rossa accesa.
“Padre Umberto, lì
c’è sempre padre Umberto.”
Sarebbe corso da
lui ma si trattenne. Che avrebbe raccontato al prete? La necessità di un uomo,
di un dio qualsiasi lo portò al confessionale. Tremava nelle mani e nelle
parole e parlava, parlava senza riprendere fiato, anche di sua moglie e dei
figli che non erano arrivati e della fatica di essere cristiani e della pena
della vita.
Padre Umberto lo ascoltò, gli diede l’assoluzione e lo
salutò. “Tre avemaria alla nostra cara Madre. Ma si sente bene?”
“Sto bene, adesso
meglio, grazie.”
Tre avemarie e poi
quattro, cinque, dieci perché ogni volta cercava di mantenere la concentrazione
dall’ave all’amen ma si disperdeva nella palude dell’ansia; così
cominciava da capo e così tirò sino alla comunione.
L’ostia gli si
incollò al palato. Non aveva saliva. Gli parve di soffocare. Tornò alla panca.
Si sedette. Pensò che non doveva aver fretta, lentamente si sarebbe sciolta da
sola.
Uscì, ritrovando la luce
del sagrato. Stava guarendo? Gli bastò avvicinarsi al muretto, guardare la
città giù di sotto per provare le vertigini. Era di nuovo inaffidabile. 6-continua
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