Cinque
Matilde si svegliò. L'ultimo sogno
le aveva fatto credere che fosse domenica. Intuì dalla luce che era già
mattina. Giulio nel letto non c'era. L'ultimo ricordo di lui era stato la
solita protesta per il suo ronzìo notturno. Le dispiaceva, qualche volte meno,
altre ancora godeva nel dargli fastidio.
Guardò l'orologio: sette e
venticinque. Pochi secondi e la sveglia partì; s'alzò di scatto ma si quietò
subito e intanto si chiedeva come mai suo marito non fosse nel letto.
Quando non lo trovò in nessun locale
né riassunto in un biglietto si disse: 'Quando mai se n'è andato senza dirmi
niente?' Volle calmarsi ma non ci riuscì.
Con la rabbia tornarono parole da
innamorati, promesse di sincerità assoluta, ripetute parole d’amore. Amore?
Giulio non era più quel Giulio, lei aveva il diritto di non essere più
l'ingenua Matilde che l’aveva amato davvero.
Fu presa da una curiosità nevrotica.
Aprì cassetti, lesse foglietti. Notò che era uscito senza portafoglio. Quando,
aprendo il cassetto del comodino del marito, vide la scatola di legno
intarsiato (conteneva fazzoletti di carta e condom) e l'intuito le
consigliò di aprire anche quella, considerò che stava esagerando. Ma non si
trattenne. E lo trovò proprio lì.
***
Matilde
sarebbe arrivata a scuola in ritardo, ma era l'ultimo suo pensiero. Né
s'interessava di dove potesse essere finito quel giuda. Aspettò le otto, prese
il telefono, chiamò lo studio dell'avvocato Caravati, parlò con la segretaria,
fissò un appuntamento per le sedici di quello stesso pomeriggio, poi chiamò la
scuola ("Non è suonata la sveglia, arrivo subito"), completò il
trucco, prese le chiavi dell'auto, scese in garage, avviò, fece con attenzione
la manovra d'uscita, richiuse e si diresse verso il liceo classico ‘Ernesto
Cairoli’.
Sospetti ne aveva. Ma i sospetti
sono sospetti, la certezza era che Giulio non fosse così coraggioso e stupido
da farsi l'amante.
Tamburellando nervosamente le dita
sul volante viaggiava verso il liceo e la musica saturava la poca aria
dell’interno della sua Panda. Nonostante fosse in ritardo, ben oltre le otto
del mattino, c’era coda allo sfociare di via dei Campigli nella rotonda di
piazza Libertà. In quell’ampio slargo circolare, sul quale s’affacciavano la
Questura e Villa Recalcati, già Hotel Excelsior e ora sede
dell’Amministrazione Provinciale, gli uomini di palazzo avevano collocato un
simbolo dell’operosità e dell’ingegno varesino: un aereo a reazione per
addestratori, il Macchi 308 dell’ingegner Ermanno Bazzocchi. Di primo acchito
poteva impressionare il trovarsi di fronte ad un aeroplano, sospeso e immobile
a qualche metro da terra, al centro di una piazza, al posto di una fontana o di
un albero secolare.
Gestendo a fatica la rabbia per
quelle auto incolonnate, Matilde ripassava tutte le occasioni che aveva avuto e
che aveva lasciato appassire, perché era la moglie di Giulio. E la pazienza che
aveva dovuto portare? Inghiottì l’amaro delle tante delusioni, patite per un
uomo che era appassito subito. La telefonata all'avvocato era stato un gesto
non più rinviabile.
Sgommando riuscì infine ad
immettersi nel flusso circolare del traffico di piazza Libertà. Si immaginò
quella donna: la sua età, il suo aspetto, la professione. Da quanto si
vedevano? Erano già stati a letto? Il biglietto, poche parole, lasciava molti
dubbi. Pensò se parlarne con Giulio prima o dopo l'incontro con l'avvocato, e
come dirglielo, con rabbia o con le carezze avvelenate della superiorità. Lei
sceglieva, lei lo mollava.
Completata la rotonda prese, in
salita, via Venticinque Aprile, poca strada ancora poi si fermò, freccia a
sinistra e su per i tornanti del colle del ‘Cairoli’. Trovò parcheggio vicino
all’ingresso della palestra, un imponente edificio d’architettura fascista che
aveva ospitato, negli anni Cinquanta e Sessanta, i canestri della squadra di
basket della città. La grande Ignis, sponsorizzata dal commendator Giovanni
Borghi, di lì a pochi anni avrebbe dominato in Italia e nel mondo, grazie al
messicano Manuel Raga, ai varesini Aldo Ossola e Dodo Rusconi, a Dino Meneghin,
Paolo Vittori, Ottorino Flaborea, Ivan Bisson, al biondo Bob Morse e a tanti
altri giganti della palla al cesto. Se Varese erano nome d’esportazione, lo si
doveva soprattutto a quello sport.
***
Matilde entrò in aula e guardò
subito verso Sofia: terzo banco, ultima fila di destra. Sofia era la figlia che
non aveva avuto e che avrebbe voluto avere; le somigliava, era intelligente,
sveglia e un po’ pazza, era un tipo, vivace e sfrontata, umorale, non secchiona
e anche piena di problemi. Poi scoppiava la gioia incontenibile dei momenti di
grazia.
Sofia era girata a parlare.
Matilde chiese scusa agli alunni per il ritardo, capì che la classe non ne
aveva sofferto, fece l’appello, cercò di simulare la normalità.
Nella classe c’era silenzio, una
quiete ansiosa: era mattina di interrogazione, Matilde però non ricordava il
programma.
“Che vi avevo detto? Oggi
s’interroga, mi pare.”
“No, si spiega, prof” disse Sofia.
“Si spiega?” e intanto se la
gustava. Lo aveva detto per ingannarla? Sarebbe stata capace di una menzogna?
Ma quelle bugie, a quell’età, meritano un sorriso. E una dose di rischio per
chi si fa avanti. La bugia di Giulio era stata una vigliaccata.
“Già, oggi spieghiamo...” Ma che
spiego, pensava Matilde? Che la vita è un enorme inganno di perfezione?
“Eppure, ragazzi, m’ero fatta l’idea che dovessi interrogare. E se andassi
a vedere il registro, scoprirei che
dovevo interrogare Micheluzzi, anche perché è assente, vero, caro Micheluzzi?”
Ora la classe taceva. Anche Sofia.
Matilde sapeva farsi rispettare.
“Prendete il libro. Giacomo
Leopardi...”
“Pagina duecentodue” disse qualcuno.
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