Quindici
Giulio era tornato
in auto. L’abitacolo scottava, sapeva di fintapelle, di plastica, dell’avanzo
del fumo di vecchie sigarette. Sentì la voglia di fumarsene una. Ma, oltre ogni
tristezza, aveva bisogno di sua moglie. Non gli restava che Matilde.
Accese, partì
verso casa. Giunto a Bobbiate capì di non essere pronto all’incontro.
Parcheggiò vicino alla chiesa progettata dall’architetto Bruno Ravasi negli
anni Sessanta. Trovò un posteggio all’ombra, ora faceva più fresco. Voleva
scriverle qualcosa. O scrivere per dare ordine all’inferno che gli bruciava nel
petto.
Guardò l’ora sul
cruscotto: le quindici e tre.
Prese un blocco,
la stilografica, appoggio il blocco al volante. Guardava le righe sul foglio.
Si incrociavano. Doveva calmarsi e scrivere, anche banalità ma scrivere.
‘Cara Matilde…’
no, non era una lettera per Matilde, cancellò il ‘Cara’. Non riusciva a comporre
una frase, non riusciva a pensare e a scrivere ‘Matilde, ti amo’.
Cancellò tutto,
strappò il foglio, in quello nuovo scrisse ‘Mi si è rivoltato il cervello’, poi
si piegò in avanti, la fronte sul block-notes. Piangeva, singhiozzava,
poi stava meglio.
Sollevò la fronte
dal volante. La scritta era una macchia. Le lacrime avevano bagnato il foglio.
Strappò un’altra pagina. Guardò fuori: non passava nessuno.
Reclinò il sedile,
sollevò un poco i piedi, chiuse gli occhi, appoggiò il blocco e la stilo sul
sedile di fianco, prese aria, fece il possibile per quietarsi. Ma che aria
poteva esserci lì dentro? Era in ombra, giù i finestrini, ma si soffocava.
Si tirò su di
nuovo, riprese il quaderno, la penna. ‘Scrivi, imbecille...qualunque cosa...’
e, nello scrivere, ebbe l’impressione di una rinascita. In principio due, tre
parole poi si perdeva ma ricominciava e una frase veniva e un’altra e insieme
piangeva, di gioia e di rabbia, e riprendeva, ringraziando i segni blu che
facilitavano la concentrazione.
Quando si sentì
pronto per far ritorno da lei, l’orologio sul cruscotto segnava le quindici e
ventisette.
***
Matilde posava
davanti allo specchio del bagno. Si stava truccando, prima d’uscire. Metteva in
ordine la successione degli eventi: con l’avvocato non avrebbe dovuto
questionare molto. Avrebbero più che altro concordato la lettera da mandare a
Giulio. E qui un po’ era indecisa: non regalargli nessun preavviso o metterlo
nelle condizioni di capire qualcosa? Accordi preliminari, giudice, separazione,
tre anni il divorzio. I beni li avevano separati, il bene dei figli non
l’avevano in dote, quell’appartamento era proprietà sua, per eredità familiare,
che lui si cercasse un’altra sistemazione. I soldi non gli mancavano. Del resto
le informazioni sul da farsi le aveva prese da tempo. Era ormai l’ora di
prendere strade diverse. Se ne convinse. Non stava affrettando i tempi, non
stava ragionando in crisi emotiva.
Con lo spazzolino
del rimmel fra le dita rivedeva Giulio, quando Giulio somigliava al solista dei
Beatles e le amiche, maliziose, cantavano ritornelli noti e ridevano; ora
nemmeno di faccia ricordava più l’ex scarafaggio di Liverpool. Il sovrappeso
gli aveva deformato il volto. Ma dentro era cariato già da prima, anche prima
delle nozze, e lei un po’ se n’era accorta, ma quella somiglianza con Paul Mc
Cartney…ed era certa che, con lei, sarebbe cambiato.
Un po’ di matita
sulle sopracciglia, poi Matilde guardò l’ora: quindici e ventinove.
Prese la spazzola.
La tinta era da rinnovare. Molti capelli, dalla radice e per un centimetro
buono, erano grigi; qualcuno già bianco latte. S’innervosì. Per questo le borse
sotto gli occhi le parvero impresentabili.
Si piaceva sempre
di meno.
***
“Ma oggi c’è il
sole” disse Altin, sedendosi sul letto.
Sofia gli si
sedette di fianco. Capì che il sole c’entrava con la sua richiesta,
raccontargli di qualche sua brutta giornata. “Dicevo così...se non vuoi...” e
s’alzò, per accendere dell’altra musica.
“Perché le cose
brutte?”
“Ci sono giornate
che fanno schifo” e Sofia ancora pensava alla canzone, e al suo seno sfiorato
da Altin.
L’albanese non era
venuto in quella casa per parlare.
“Ascolta” disse
ancora Sofia, “l’altro giorno mi stavi parlando di una certa Luzina...”
“Luzine.”
“Non era una
storia triste?”
“Luzine era una
ragazza, me la ricordo molto bella.”
“E poi?”
“E’ successo poco
prima della traversata, qualche giorno prima” raccontava Altin. “Era marzo,
aveva appena smesso di piovere. Abitavamo in centro a Skoder, vicino alla
moschea, alla moschea dei Piombi. Ero sul balcone. Ho visto arrivare la
Sigurimi, la Polizia Segreta. ‘Mamma, mamma, la Sigurimi’ e lei ‘Vieni dentro,
chiudi tutto’ ma io non volevo entrare. Poi ho visto gli studenti dall’altra
parte. Mia madre mi ha preso per il braccio, io protestavo, mi sono messo a
piangere. Così mi ha lasciato guardare dalla finestra. E’ stata un po’
incosciente, per come sono andate le cose. Lei non ha visto, e neanche mio
padre, che era al lavoro. Ho visto solo io. Il capo della Sigurimi aveva il
megafono e urlava agli studenti di fermarsi. Poi uno dei suoi ha sparato una
raffica verso l’alto. Mia madre non ha sentito perché teneva accesa la radio.
Ho preso un po’ di paura ma sono rimasto lì, a guardare. Un’altra raffica, in
alto, e il capo che diceva di fermarsi. Si sono fermati tutti. Solo una ragazza
è andata avanti.”
“Luzine?”
“Sì, poi abbiamo
saputo che si chiamava Luzine Seran, era di Skoder, aveva più o meno la tua
età. Vent’anni non li aveva. Lei non si è fermata, e allora anche gli altri
l’hanno seguita, uno, due, tre, dieci, tutti no, molti se ne sono andati via,
qualcuno scappava indietro. Avevano paura. Un ragazzo, forse il suo ragazzo le
diceva di fermarsi, la strattonava ma lei gli parlava. Si fermavano un po’, lei
parlava, discutevano, riprendevano a camminare verso la Polizia, che era
arrivata con le jeep. E il capo che gridava al megafono: Fermi, per dio!
Fermi! Poi Luzine ha cominciato a lanciare sassi, altri lanciavano sassi contro
i loro mitra, le loro auto. E allora è arrivata una raffica, poi un’altra.
Luzine è caduta, altri gli sono caduti vicino, ma morta è morta soltanto lei.
Sono corso da mia madre. Piangevo. L’ho abbracciata. Poi non si sentivano più
spari. Le ho detto di venire a vedere, che avevano ammazzato dei giovani. Pochi
giorni dopo ce ne siamo andati. Di Brindisi, della traversata, sai già
tutto.”
15-continua
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