Quattordici
Emilio stava in
silenzio. Ascoltava, soprattutto Maria e le poche parole che riusciva a tirar
fuori Giulio. Ogni tanto qualche piccola smorfia, come se guardasse loro e
pensasse ad altro. Poi mezze frasi a bassa voce, in dialetto, che Giulio non
capiva, che Maria sapeva tradurre.
Emilia sbatteva
loro in faccia due occhi invidiosi, rabbia per dolori e umiliazioni
insopportabili. La donna fingeva di non sentire, di non vedere. O cercava di
consolarlo in qualsiasi modo.
“Si ricorda la
poesia del Natale Gorini? Vecc o giuvin?”
Emilio non rispose, ma dagli occhi fece intendere che
l’avrebbe sentita volentieri.
E Maria attaccò: “S’è
vecc quand ca sa süta
a guardà indrè, opür
quand ca sa viv par i regord. S’è vecc quand sa gh’ha dent dumà rimpiant, o
quand ca sa turmenta in di rimors…”
Emilio s’agitò,
s’incupì.
“Ha bisogno di qualcosa?” chiese Maria.
“Go d’andà...”
Maria sapeva di
che si trattava.
Anche Giulio
comprese. Ne approfittò: “Zio, ora vado” e forse sarebbe stata la scelta
migliore, anche per Emilio, preso dai dolori addominali. Avrebbe potuto dirgli
“Spècia ‘n mumènt…” e lui non se la sarebbe sentita di scappare. Emilio
invece s’era innervosito, forse per le fitte o forse per dover scomodare Maria
o anche perché costretto a rendere pubblica la più privata delle necessità.
Ma intervenne
Maria: “Se si ferma ci fa un piacere, mi dà una mano, non sembra ma
pesa...però, se deve andare, faccio anche da sola.”
“Non si preoccupi,
resto.”
“Venga con me” e
Maria gli fece strada nel locale attiguo, dove stava in parcheggio una
carrozzina con il buco, una comoda con le ruote.
“Ora prendiamo
questa” e si chiuse la porta alle spalle. “Il signor Emilio potrebbe avere una
crisi, a volte succede, non si spaventi, ci sono io.” Prese la carrozzina e gli
fece strada. Tornarono da lui.
“Lei lo prenda qui
sotto” e gli indicava l’ascella, mimando il movimento, “poi con la destra lo
sollevi, gli sollevi la gamba. Al mio via, insieme.”
“I pantaloni...”
disse Emilio.
“Scusi” e Maria
allentò la cintura, sfilò i pantaloni, le mutande.
Giulio tremava.
Arrivò ancora una volta Maria: “Ecco, adesso lo prenda
come prima, al mio via.” Emilio venne sollevato e posato sulla carrozzina.
“Possiamo uscire”
disse la donna.
Cambiarono locale,
lei chiuse la porta: “Si sieda pure.”
Giulio fece per
accomodarsi su una vecchia sedia impagliata; simili le aveva viste solo nella
chiesa della sua infanzia. Stava per sedersi, ma dal locale di Emilio
arrivarono lamenti, poi urla più forti.
“Capita, gli
vengono queste crisi, lei stia qui” e Maria tornò dal vecchio.
Giulio s’alzò,
seduto non riusciva a starci, aveva perso il controllo; anche se non voleva
sentir nulla non poteva ignorare che Emilio piangeva e bestemmiava e urlava “Làsum
murì…ga la fò pü,
Maria…” e dopo qualche minuto scappò, lasciando la porta aperta, di corsa
giù per le scale, inciampando e aggrappandosi al corrimano.
***
Matilde s’era sdraia sul letto
matrimoniale. Quella minuscola coda di cavallo, capelli suoi, di quando aveva
sedici anni, ciocca di capelli fatti su a treccia, legati ai due estremi da un
nastrino azzurro, conservati da sua madre, poi da lei dopo il matrimonio,
finiti non si sa come in quella bustina di panno, conservati da Giulio, quella
treccia castana se la passava sul viso. Una carezza, un fremito di nostalgia,
capelli dei suoi sedici anni. Ma i ricordi di quell’età non erano descritti
solo dalla ciocca. Nella busta c’era dell’altro. Foglietti.
Per leggere il
primo, Matilde si mise con la pancia sul copriletto. L’aveva scritto di suo
pugno, con un pennarello, tanti colori: rosso, rosa, verde, azzurro. Lesse
veloce. L’aveva indirizzato a Giulio, al Giulio appena conosciuto: ‘Devo
dirti una cosa, ma per dirtela ho bisogno di un prato verde, un cielo azzurro,
essere sola con te. Non è uno scherzo, è importante, ma non devi preoccuparti.
Ti amo. Matilde’
Girò la piccola
pagina color bianco avorio: ‘La libertà nasce dalla sincerità. Ricordati che
ti amo e che ti amo per tutto ciò che sei. Ti amo anche per i tuoi limiti.
Quindi non devi vergognartene. Io con te ci sto bene e mi vai bene come sei tu,
in toto. Credimi. Matilde’ E il credimi era sottolineato, con una
sola riga.
Certo, lei lo
aveva scritto. Ricordava anche quando. Ed era stata sincera, come sincera le
era salita la commozione, ma al suo seguito anche tanta rabbia. Come era
possibile che il Giulio di oggi potesse andarle bene?
Aprì un altro
foglietto, piegato in quattro. Lesse anzitutto la data. Era stato scritto prima
dell’altro, appena ripiegato. ‘Sono innamorata di Giulio....Paul Mc Cartney,
gli assomiglia molto, Cinzia dice che Giulio è più bello, a me non sembra.
Comunque gli assomiglia abbastanza. Carino vero! Ma quello che mi piace di lui
è qualche cosa d’altro. Ha un fascino tutto particolare...’ Era una pagina
del suo diario, chissà come finita in quella busta e in quel cassetto.
C’era un terzo
foglio. Lo aprì. La scrittura era la sua. Lesse, curiosa: ‘Se sei schiavo di
te stesso, non c’è posto per nessun altro. Se tu basti a te stesso, non è che
inciampo chiunque altro. Se i tuoi principi ti fanno schiavo del tuo orgoglio,
i peggiori vizi ti farebbero più uomo. Se i tuoi principi bastano al tuo
orgoglio, l’insicurezza di un bambino ti farebbe più uomo. Se tu credi che mi
bastino le parole per convincermi, ancora non hai sentito il mio cuore.’
La data non era indicata. I
concetti erano suoi, ed era convinta di aver scritto quel foglio prima di
sposarsi. Com’era finito lì? Il marito era andato a frugare nei suoi cassetti?
Con calma ripiegò i fogli,
accarezzò la treccia, ripose tutto nella busta, la busta sotto la biancheria.
In quei gesti quieti, un po’ di rancore c’era: più che rancore, inquietudine,
l’inquietudine del dubbio. Aveva fatto bene a curiosare? Chiudendo l’armadio
chiuse dentro di sé questi nuovi pensieri. All’appuntamento con l’avvocato
mancavo un’ora scarsa.
***
“Ascolta...questa mi piace un
casino” e Sofia armeggiò allo stereo.
“Però metti alto...” disse Altin.
“Bad Day...”
“Daniel Powter?”
“Sì, è una figata...e il video
l’hai visto?”
“Fammi sentire” e la musica
partì.
Sofia abbassò. “Balliamo?”
“Balliamo.”
“Lenta...è un lento” e intrecciò
le sue dita dietro al collo di Altin, che le cinse i fianchi. E se la stringeva
contro, lei prima opponeva resistenza e
poi lasciava fare.
Non era molto più alto di lei,
massimo cinque centimetri.
Al ritornello (‘Cause you had a bad day...’)
Sofia ebbe l’istinto di cambiare ballo, non più il lento, che ci stava
dentro a fatica in quel cambio di ritmo, ma modulò i passi sulla nuova
frequenza, un cambiamento minimo.
Ma venne ‘Some times the
system goes on the blink’ verso la fine della canzone (la traduzione,
scaricata da internet, diceva ‘A volte il sistema si guasta’), giunse quel
cambio repentino e lì, per forza, bisognava fare qualcosa. Sofia allontanò il
suo ragazzo, gli perse le mani, se l’avvicinava e lo allontanava, cercando di
seguire la cadenza del brano.
Altin rideva.
“Mi sembri un paguro” e Sofia si
divertiva. Era sempre lei che lo guidava, benché Altin avesse due anni in più,
e anche tanta sofferenza alle spalle.
Quindi la scelta musicale di
Daniel Powter facilitò un nuovo abbraccio. La canzone moriva, moriva la
distanza fra Altin e Sofia. Altin le toccò un seno. Sofia si contrasse. Lo allontanò.
Era un po’ persa. S’agganciò al titolo della canzone, che stava svaporando: “Mi
racconti di qualche tua brutta giornata?”
14-continua
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