Tredici
Giulio era salito
da Emilio. L’anziano parente stava seduto su una poltrona e non s’alzò quando
lo vide. Ma che fosse sorpreso, e forse anche felice di rivederlo, lo si
leggeva negli occhi e nella rapidità con la quale aveva allungato la sua mano
ossuta verso l’altra, sudata e gonfia.
“Giulio? Giulio a
casa mia? Sa te fètt chi…” e lo invitò ad accomodarsi, quasi scusandosi
di essere costretto a campare così malmesso.
Emilio non era
solo. Gli faceva compagnìa una donna, sessanta, settant’anni, ben curata, come
in ordine appariva lui: solo la barba era quella di un vecchio, troppo stanco
per farsela tutti i giorni.
“Questa è
Maria....Maria, Giulio...siamo parenti, un po’ alla lontana...”
“Parenti,
parenti.” Pensò che finalmente si stava distraendo ma nel pensarlo riapparve la
morsa allo stomaco, a metà, all’altezza del diaframma. Quell’oppressione non se
ne andava.
Si mise seduto.
“Dicevi?” chiese
Emilio.
Giulio infatti si
era fermato, voleva dire qualcosa ma s’era bloccato pensando a quel concetto e
alle parole e le parole non arrivavano, si confondeva. Prese un altro respiro
lungo. “Sì, sì, scusa...ma fa caldo qui dentro...No, dicevo che figli non ne
abbiamo, non ancora, ora però è un po’ tardi.”
Maria s’era
avviata verso la finestra, aveva abbassato la tapparella per lasciare
all’asfalto della strada tutto quel gran caldo di maggio. Poi era tornata a
sedersi di fianco ad Emilio.
“Anche tu, niente
figli, o ricordo male?”
“Non sono mai
arrivati” disse il vecchio.
La fitta allo
stomaco non lo mollava, come un morso di cane capace di addentargli la vita. Se
la prendeva con Dio. Non riusciva a perdonarLo.
***
Dio mio, aveva
spiegato Giacomo Leopardi e stata distraendosi con Cento vetrine. Giulio
l’aveva a tal punto immiserita?
Matilde andò in
camera da letto. Era quasi l’ora di prepararsi per l’avvocato.
Aveva riposto il
foglietto nella busta. Andò a riprenderselo. Poi, con calma, continuò quello
che aveva iniziato la mattina e che aveva dovuto interrompere per non sommare
ritardo in classe. Frugò nel cassetto del comodino di Giulio. E frugò nei
cassetti dei vestiti, senza mettere in disordine, certa che non avrebbe trovato
nulla.
Guardò in tutte le
borse del marito, in tutte le sue tasche, in ogni probabile nascondiglio.
Ora voleva musica
classica. Scelse Mozart, concerto per pianoforte in do maggiore K. 467.
Adocchiava qua e
là e intanto cercava la frase, la parola, il concetto capace di sintetizzare,
come una perla, le ragioni della sua richiesta di separazione. Fallimento?
Delusione? Inganno? Viltà? Bugia? Grettezza? Sulla parola ‘violenza’ si fermò
più a lungo. E le sue colpe? Era disposta ad ammetterle, ma lei, nel tempo dei
dissapori, non aveva nascosto la testa nella sabbia. Aveva sofferto e lottato,
costruito mentre lui demoliva, non aggiungeva mattoni alla casa comune. Non
piangeva insieme a lei, minimizzava: un’alzata di spalle e via, un altro giorno
è andato.
Pensò che la
mancanza di figli non li aveva aiutati; prima li voleva lui ma non lei, poi li
avrebbe desiderati lei e lui divagava.
Allungò la mano
sotto una pila di indumenti intimi. Trovò una busta di panno. La prese. L’aprì.
***
“Bhè?”
“Posso?” chiese
Altin.
“Vieni, vieni...ma
che ci fai?”
“Ti spiego” e
Altin entrò.
“Successo
qualcosa?”
“Niente...solo
che....”
Sofia l’aveva
portato in camera. S’erano seduti sul suo letto.
“Solo che?”
“Ma sei sola?”
“Sì” e quel sei
sola non le piacque. Si mise sulla difensiva.
“Niente...non mi
andava di aspettare fino alle quattro.”
Lo guardò come per
dirgli ‘Nemmeno a me’ ma lo tenne per sé.
“Che fai?”
“Stavo cercando di
studiare; anzi, pensavo fosse Bea, così magari ci riuscivo.”
“A far che?”
“A studiare.”
“Allora ti rompo.”
“Figurati.”
Altin usava il
casco come tamburo, aveva un profumo buono.
Lei fece un lungo
respiro: “Ma che ti sei messo addosso?”
“Niente.”
“Non prendermi in
giro.”
“Niente, perché?”
“Sai di buono” e
si piegò verso il suo collo. Ora, vicina, il profumo era meno interessante. Le
infilò le dita nei capelli mossi, lunghi dieci centimetri almeno.
“Dai, metti su
musica.”
“Dovrei studiare.”
“O.K. Ti aiuto.”
“Per aiutarmi
dovresti andartene.”
“Vado...allora me
ne vado” e fece la mossa di mettersi in piedi.
“Non fare il
cretino!” e s’aggrappò al suo braccio, buttandolo sul letto.
Altin non si tirò
su subito. Attese. Invano.
“Mettiti seduto”
disse Sofia, che lo studiava ma insieme se lo mangiava.
Nessun commento:
Posta un commento