Dodici
Giulio s’era
trovato di nuovo in mezzo alla strada. Era salito in auto ma vagava per la
città come una bussola senza attrazioni.
Aveva pensato di andare dal
dottor Brunetti, medico di base, poi in Farmacia, persino al Pronto Soccorso,
lasciarsi cadere lì all’ingresso, come l’avessero scaricato da un’ambulanza:
che ci pensassero loro, i padroni della salute, a cavargli fuori il marcio.
Infelice si fermava (un semaforo,
un parcheggio) respirava a lungo, si schiaffeggiava, ripartiva, tremava,
accostava di nuovo, respirava, accendeva lo stereo, lo spegneva perché la
musica gli confermava la sua incapacità di ascoltarla.
Terrorizzato
all’ipotesi che, facendo ritorno a casa, Matilde non ci fosse più, era passato
per la sua via, l’auto della moglie c’era e così se n’era andato di nuovo,
verso il niente di una città che stava espellendo quel corpo estraneo.
Presentarsi al
lavoro? E quelli che sapevano della sua storia con Lucia? Che aveva preso le
ferie per portarsela di nuovo a letto? S’era confidato con pochi, e fidati, ma
il vanto di allora oggi era vergogna.
Intorno alle
quindici stava scendendo verso il lago. Parcheggiò alla Schiranna, vicino alla
piscina. Poi si portò sulla riva. Sentiva voci provenire dalla sede della
Canottieri. Vide partire un singolo, subito con remata forte, diretto verso
Bodio. Davanti a lui il lago piatto, un odore sgradevole d’acqua stagnante, di
alghe, di pesce, e un pescatore con una canna fissa, molto lunga.
“Abboccano?”
“Neanche una
leccata.”
“Non è che l’acqua
sia molto pulita.”
“Dìsan ca l’è
guarì…par mi a l’è l’istèss da trent’ann fa…danèe sbatü via.”
“Per giunta, soldi
nostri.”
Poi Giulio non
ebbe più voglia di parlare, e neanche il pescatore che posò la canna, cambiò il
cagnotto, accese una sigaretta, tossì e riprese la sua patetica lotta contro i
gobbini, le scardole e i boccaloni del lago di Varese.
Guardò l’acqua,
onde minime che si sfrangiavano su piccoli sassi, che accarezzavano la pancia
di anatre vagabonde, che cedevano alla morte senza lottare. Chiazze verdi di
rimasugli di alghe dondolavano, insieme a piccoli detriti, testimonianza della
maleducazione di qualcuno. Una libellula sfiorò il galleggiante bianco e rosso,
lanciato dal pescatore fiducioso, e partì decisa verso le cannette del parco
‘Luigi Zanzi’.
Spostò lo sguardo
dal litorale di fronte a lui, quello di Galliate, arrivò a Biandronno,
Bardello, salì verso il cielo incontrando il Monte Rosa: sbiadito, reso più
mansueto dall’afa, più che roccia e ghiaccio pareva una grossa nuvola panciuta
pronta a svaporare, scomparendo come un fantasma. E fantasma era anche la
traccia di luna, bianca impronta nel cielo smunto.
Tornò ai suoi
piedi, s’avvicinò fino a farsi sfiorare la punta da quell’acqua poco sana.
Allora si ricordò dello zio Emilio, un parente ottantenne che viveva solo,
malato, lontano dal ricovero perché qualche amico lo curava. Abitava in quella
zona periferica della città.
Sapeva delle sue
condizioni e dei suoi bisogni, ma se n’era sempre disinteressato. Pensò che
allo zio Emilio, esperto nel soffrire, avrebbe potuto raccontare tutto. Sentì
che quello zio gli apparteneva. Avevano entrambi un corpo che bruciava. Prese
l’auto, trecento metri di strada, parcheggiò e salì da lui.
***
Matilde si mise comoda. Accese una sigaretta e cominciò a
pensare all’avvocato. Portargli o no il foglietto di Lucia? Essere sincera sino
alla vergogna o trattenersi? Ma bastava molto meno per separarsi; bastava dire
che Giulio gli avevano portato via vent’anni di vita, che si era sbagliata e
che c’era tempo per rimediare. La separazioni era il male minore? No, un gran
bene. Per entrambi? Per lei di sicuro, e che lui andasse sulla forca.
Prese carta e
penna, buttò giù qualche appunto. Scriveva e metteva a fuoco quel foglietto a
quadretti, come a quadretti era il foglietto con scritto sopra dell’amore
(amore?) di quell’altra verso suo marito. Aveva scritto proprio: Ti amo...’
Perché scomodare un verbo così impegnativo?
Si sentì
spiazzata. Su Giulio spadroneggiava, si lamentava ma lo teneva per la
collottola. Sarebbe stata in grado di farne a meno?
Ingoiò fumo e
rabbia: se li era immaginati nel letto. S’alzò, aprì la portafinestra della
cucina, andò in sala e accese la tele. Davano Cento vetrine.
***
Sofia aveva
ascoltato, nell’ordine, dopo che i suoi se n’erano andati, lasciandola padrona
dell’appartamento: Trouble dei Coldplay, Angelo di Francesco
Renga, Un sole dentro al cuore di Giorgia e Cry me a river di
Justin Timberlake. Su Cry me a river, più o meno a metà, dentro
quel ritmo insistente e un po’ ossessivo, anche vagamente triste e inquietante,
s’era ricordata della maturità: da studiare. Perché se non aveva problemi di
ammissione né di promozione, non le andava di uscire col minimo.
‘Lasciamola finire
e poi spegniamo’ si disse. Mantenne la promessa. Spense l’Mp3, scese dal letto,
zampettò scalza a chiudere la porta di casa, s’incamminò verso la scrivania. Ma
Altin batteva in testa come un motore fuori giri.
Ci aveva messo del
tempo per convincersi che no, basta, ora bisognava studiare per davvero.
Leggeva e le parole s’aggrovigliavano, si spegnevano: l’attenzione era su
altro. Cercava di rabbonire il cuore, lo rimproverava ma quello faceva di testa
sua e lei si lasciava cullare dalla strafottenza dell’amore. La prof di lettere
aveva spiegato Giacomo Leopardi. Le era parsa distratta quella mattina. Con un
poeta come Leopardi non sarebbe stato difficile regalare emozioni ai suoi
alunni. Sofia non se ne ricordava. Forse perché troppo emozionata da Altin.
Forse...e suonò il campanello...e sperò si trattasse di un’amica. In due
sarebbero state obbligate a studiare. Ma non s’era accordata con nessuno. Una
sorpresa? Capitavano. Arrivavano da lei amiche disperate, spettinate dall’ansia
della maturità, alla ricerca di mutua compassione.
Corse ad aprire.
Prima guardò nello spioncino. Altin? Già altre volte era entrato in casa sua.
Mai trovandola sola.
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