TRENTUNO nove
‘Un
segno, mostrami un segno’: don Marco picchiava delicatamente i pungi sopra il
letto, come un bambino capriccioso che sta finendo la lagna, ha esaurito le
energie e la speranza ma ancora mostra qualche traccia di protesta. In lui non
c’era protesta, non più: era una supplica. ‘Un segno’ e guardava il corpo steso
di Roberta e sentiva alle spalle pendere la croce. Sperava che la ragazza gli
regalasse un fremito, un gemito. La fissava e sentiva gli occhi umidi. Con un
movimento che gli costò fatica, restando in ginocchio, ruotò il capo e salì al
crocifisso, immobile nel semibuio. Lo fissò, la vista s’appannò, gli parve di
vedere un cenno della piccola testa ma ora vedeva doppio, era l’inganno del suo
voler fissare quell’oggetto. ‘Muoviti, mio Dio, fammi capire’ ma intanto
pensava che ugualmente non avrebbe creduto, anche se quel piccolo uomo
scarnificato fosse sceso dalla croce e salito sul letto, al suo fianco. Avrebbe
pensato alle allucinazioni, in quella notte tremenda, che non moriva mai.
Eppure lo stesso chiedeva un segno.
Si
alzò, recuperò una sedia, si mise in piedi, allungò il braccio e prese con sé
la croce. Era impolverata. Con il fazzoletto la ripulì, brillò il metallo,
polveroso e unto. Come in processione, riprese la sua ronda intorno al letto,
alzando di tanto in tanto la croce verso il soffitto, allungandola verso la
ragazza, sperando in un effetto taumaturgico. ‘Sono ridicolo, un santone, ma in
fondo cosa siamo noi preti? Santoni più eleganti, niente di più, santoni con
chiese stupende, che alziamo calici verso navate illuminate da mosaici e marmi,
ma la nostra è solo magia.’ Chiedeva scusa a Dio per quei pensieri, perdono per
la sua follia.
La
scossa si mosse lentamente, come un lamento rugoso, che diventa rabbia
contenuta, compressa e cresce, sino a scuotere il mondo dalle fondamenta. Don Marco aveva
imparato ad accettare quelle scosse d’assestamento, tremende di notte, dove il buio accentua il
pericolo. Il senso d’impotenza. ‘Eccola’ pensò e lanciò la croce sul letto. ‘Quieto,
sta quieto’ e avvertì un leggero giramento di testa. Si appoggiò alla sponda
del letto, la sentì vibrare appena, come una corda d’arpa pizzicata. Ma il
suono non era dolce. Quell’ira di un dio infelice e vendicativo stava tornando?
Il silenzio dell’ospedale s’animò di voci, parole preoccupate e altre
tranquillizzanti. “Questa è più forte” sentì dire da qualcuno, lungo il
corridoio. Ebbe l’impressione di udire la corsa di chi aveva deciso di
accettare la via della fuga. Silenzio, il letto era immobile ma tornò il
tremito, che gli salì alle braccia. Provò nausea e paura. Avvertì la sensazione
fisica di finire sepolto, il respiro che manca, il torace schiacciato, la fine
orribile. Gli oggetti sul comodino cadenzavano i tempi del terremoto. Un rumore
forte, uno scoppio di vetri gli strinse il cuore mozzandogli il fiato: era
caduto il vaso di fiori. A quel punto scappò senza pensarci, istinto di
sopravvivenza ma non fece che un paio di passi verso l’uscita. Entrò Maria, di
corsa, chiudendosi la porta alle spalle, o forse era stato il terremoto ad
avvicinare l’uscio, facendolo sbattere. Erano soli nella camera. Soli con
Roberta che non avrebbe potuto vedere quel loro abbraccio. Si unirono, si
strinsero come due amanti che altro non attendono, da sempre. Era bassa Maria,
il prete appoggiava il mento sopra il suo capo. Nessuno parlava. Ascoltavano i
loro cuori, i respiri e il lento adagiarsi dell’onda sismica, la quiete
ritrovata. Stavano bene. Si comunicavano i loro corpi infelici. In attesa. Don
Marco sentì il suo profumo gradevole, sfiorò i capelli con le labbra, sentì il
morbido dei seni. Da quanto tempo non abbracciava una donna? L’aveva mai fatto
così? Con quel piacere? Con quel bisogno? Allentò l’abbraccio, le stava
comunicando una passione che non poteva appartenergli. Da dove arrivava quella
necessità di stringersela contro? Era una sconosciuta per lui, quell’abbraccio
non significava, non poteva significare un amore condiviso, preparato. Né lo sfogo di un
istinto.
Quando
tornò il silenzio si manifestò l’imbarazzo, nascosto dalla paura. Fu la donna
ad accorgersene per prima. Si staccò da lui con un gesto sgraziato, quasi un
rifiuto, che cercò di mitigare con le parole: “E’ passata. Mi deve scusa, don
Marco.”
“No,
no, Maria.”
Ma
l’infermiera uscì.
31-9 continua
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