TRENTUNO otto
Maria
si avvicinò alla camera di Roberta col desiderio di scambiare due parole con
quel sacerdote venuto da fuori Abruzzo, un uomo che avrebbe potuto insegnarle
qualcosa. Sesto senso di donna. O forse era stanca di non credere più. Capiva
di aver bisogno di quel Dio come di un amico infedele ma, alla lunga, essenziale.
Che vorresti incontrare, anche se sai che potrebbe finire a botte. Aveva
bisogno di trovare soluzioni alla rabbia che la intossicava. S’era fatta l’idea
che don Marco fosse un prete intelligente, che non aveva bisogno di sfruttare
l’autorità data dall’abito per farsi
valere. Che non ricorreva a parole quali obbedienza, rispetto. Sospettava che fosse
in crisi, tanto meglio, avrebbero messo insieme le domande. Avrebbero
comunicato due malinconie. Non entrò decisa, rallentò il cammino, non volle
annunciare la sua presenza, ‘non voglio svegliarlo’ pensò, con la sua
propensione al rispetto. Lasciò filtrare oltre la penombra solo uno sguardo da
ladra, lanciato oltre la soglia. La poltrona era vuota, il prete non stava in
piedi vicino alla finestra; allungò il collo, vide il letto, Roberta e lui, sul
lato sinistro, inginocchiato, le mani verso la giovane. Piangeva, di nascosto
ma piangeva, in silenzio ma dubbi non ce n’erano, anche se lasciava che la
coperta assorbisse le lacrime e i sospiri di quel lamento. Maria bloccò la prima
reazione, che era quella di consolarlo o almeno chiedergli se stesse male, il
perché di quella reazione così umana e così divina, facile e difficile al tempo
stesso. Non si mosse, spense anche il respiro, curiosò per qualche attimo, s’allontanò. Lungo
il corridoio avvertì il nascere della tenerezza, e per un tempo imprecisato di
quella notte fu felice.
31-8 continua
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