TRENTUNO quattro
Don
Marco riprese a camminare lungo il perimetro della camera, di passo in passo
più stanco. Una debolezza nelle cosce robuste, quelle gambe da calciatore
fallito, gambe atletiche che non
servivano per fare il prete, in quel momento non lo reggevano in piedi. Diede
la colpa all’afa. L’afflizione fisica saliva dal basso e lo invadeva,
rubandogli l’aria. Anche respirare era fatica. Nel cammino sfiorò un tavolino,
sul piano un vaso di fiori con gigli che avrebbero resistito forse un altro
giorno. Era tempo di rovesciarli nel cestino dei rifiuti, la bellezza e il profumo
ormai persi. Il vaso tremò, partì un rumore secco di metallo, allungò la mano,
riuscì ad evitare che i fiori e l’acqua si rovesciassero sul pavimento. La
reazione d’istinto gli provocò fitte in fronte, poi la quiete di un pericolo scampato. Cercò in
tasca un fazzoletto, si passò la fronte sudata, i capelli, il collo, slacciò un
altro bottone della camicia per dare spazio ai polmoni. Ripose il fazzoletto e
cercò nell’altra tasca il rosario. Lo
trovò, lo strinse nel pugno come a strozzare il dolore, o forse Gesù Cristo in
croce. Senza scegliere la decina, stringendo fra pollice e indice un grano a
caso, cominciò la supplica delle Avemaria. Prima rabbiose, quindi più quiete, a
ritmo con il cammino.
“Ave
Maria, gratia plena…” muoveva solo le labbra, non riusciva a recitarle a mente,
senza scrivere le parole con la bocca impastata di fede disillusa.
“Santa
Maria Mater Dei, ora pro nobis…”. Passò davanti al crocifisso, si fermò, lo
fissò, supplicò, pensò alla Madre e al Figlio sacrificato, a quella storia
bellissima e impossibile. Per un istante volle convincersi che sarebbe stato
proprio così, promesse mantenute, sentì un desiderio fortissimo di paradiso,
non aveva la forza per proseguire ancora, pensò ora mi siedo, prego, chiudo gli
occhi, prego per Roberta che ha diritto alla sua vita, io ho già camminato
abbastanza, sì, ora mi metto seduto, chiudo gli occhi e muoio, cioè vivo, me ne
voglio andare, sono stanco, troppo stanco anche di questa Chiesa, voglio un Dio senza
Chiesa, mi basta un Dio che mi abbracci, che mi sollevi da questa miseria, da
questi dubbi velenosi, me ne voglio andare per sempre dentro un’altra vita che
non mi faccia pena come questa, accontentami, Padre Buono, guarda questo povero
prete infedele.
Il
senso di pace durò poco, riprese il cammino, dietro front come un soldato in
marcia lungo il cortile assolato di una caserma qualsiasi, unò-due,unò-due, passo,
pummm, passo, pummm, era costretto a marciare ancora, a marcire ancora. Serrò
la corona nel pungo, strinse fino a sfiorare il dolore, riprese il cammino
senza trovare la pace che la preghiera, da anni, riusciva a regalargli. Quella
notte era tutto diverso. Ribolliva di una rabbia che non conosceva. Andava a ventate,
come per una tempesta. Soffi potenti e attimi di quiete, durante i quali si
sforzava di ritrovare quel Dio benevolo che gli aveva garantito un mestiere
dignitoso.
Pensò
alla nomina che lo attendeva a Roma, che aveva posticipato per una scelta di passione,
senza calcoli. Un prete curiale, un vescovo fra i suoi sostenitori, uno di
quelli che avrebbe sorriso dopo la sua promozione, gli aveva fatto capire (con
parole controllate, misurate e cattive..e che amico era?) che certe scelte “d’impeto” sono peccati giovanili, che “certi premi”
vanno afferrati quando è il momento, che le occasioni potrebbero non tornare,
che la coda di pretendenti dietro di lui era lunga.
Guardò
di nuovo la magra croce con il Cristo sconfitto, non trovò niente che somigliasse
alla sua Chiesa, mai macchiata da una sola goccia del sangue di Cristo. Eppure
cosa aveva fatto sino ad allora nella sua vita? Non aveva forse perdonato la
Chiesa per i suoi peccati (che non le negavano la santità) e perdonato Cristo
per la sua radicalità? Un equilibrio spezzato, traballante dentro quella camera
che sapeva di gigli appassiti e di disinfettante?
La
porta si era spalancata. Non riusciva più a chiuderla. Quella porta che ogni
tanto lasciava intravvedere un altro mondo, un’altra interpretazione della vita
e che lui era stato sempre abile a richiudere con forza. I dubbi di là, oltre
l’uscio, frutto di fantasia, di pretese, di arroganza…persino superiore a Dio,
chi credi di essere? E allora la porta va chiusa subito per rimanere in quel
mondo di certezze e di privilegi, di fedeli a capo chino e di vesti liturgiche,
di calici dorati e di anelli cardinalizi..quella porta deve restare sigillata,
gli consigliava anche il suo direttore spirituale, sin dagli anni di
seminario…quella porta la apre Satana, sì, se lo ricordava quel vecchio parroco
dei suoi anni giovanili, prete preconciliare che credeva ancora nel diavolo e nelle
sue astuzie…poi uno entra in un mondo e la sua vita scorre lì e ogni giorno che
passa indietro non si torna, ci si accomoda e ci si dimentica di quello che sta
fuori…ma la porta è lì e ci sono momenti che si scolla, che scricchiola sui
cardini arrugginiti dalla propria comodità e sentì il vento oltre l’uscio e
vedi una luce diversa e sei tentato e hai paura e prendi la maniglia e richiudi,
cerchi la chiave per non farla più aprire ma la chiave non c’è.
Don
Marco ora era lì, la porta spalancata e lui sul limitare della soglia, a metà
fra la corrente d’aria, vortici di novità, la porta divelta e sensazioni nuove.
Un coraggio che aveva preso le mosse dalla sua auto che si ferma, scossa dal
terremoto, e da un’imposizione dall’alto, vai, non a Roma, vai su al paese,
guarda che è capitato nella notte, Gesù Cristo avrebbe fatto così, il Signore
che tu dici di amare e di servire non avrebbe avuto dubbi, si sarebbe svestito
della porpora e, a piedi scalzi, sarebbe salito verso quella povera gente
ferita. E lui, per una volta in vita, aveva seguito la pazzia di un gesto
nuovo, e da quell’atto scriteriato e coraggioso altre follie d’amore, forzando
un cuore saturo di prudenze, un cuore che ora l’aveva invitato a vegliare con
Roberta, ragazza dagli occhi belli, che aveva perso il suo ragazzo dopo uno
stupenda notte d’amore.
La
guardò nella penombra. Cercò un segno di vita, un tremito, un movimento della
mano, tornò alla croce e alla ragazza, parete e letto. Si lasciò cadere sulla
poltrona, sentì tutta la pesantezza del suo corpo. Non stava bene. L’anima
intossicava con la sua confusione il cuore, le gambe, le braccia, il collo che
percepiva gonfio, la fronte che scottava, lo stomaco contratto in un crampo.
Credette di svenire. La gola riarsa, mozziconi di salmi gli venivano alla mente
e lui li recitava nella notte…’come per arsura d’estate inaridiva il mio
vigore’ …..’la mia lingua si attacchi al mio palato, se mi dimentico di te,
città di Dio…’ pensò a Maria. Doveva chiamarla, chiedere aiuto. Si alzò appoggiandosi
ai braccioli della poltrona. Barcollò sino al letto, pochi passi, allungò le
dita verso il pulsante del campanello, Maria sarebbe arrivata subito, l’indice
era già pronto, bastava avere il coraggio di confessare la propria infinita
debolezza. Non arrivò a tanto. Fermò la mano, avrebbe dovuto bere, cercò il
bagno, lo trovò, il lavandino, fece scorrere un filo d’acqua per non fare
rumore ma l’acqua scivolando verso l’uscita gorgogliava. Trovò una spugna, la
pose in fondo al lavandino, unì le mani a tazza, sentì il fresco dell’acqua che
riempiva quella concavità, su, sino a tracimare e vi immerse il viso e ancora
una volta e due con l’acqua come una benedizione sulla fronte e fra i capelli.
Acqua santa in gola, sulle labbra secche. Bevve a lungo, chiuse il rubinetto,
strizzò la spugna e si asciugò le mani, il volto, i polsi.
31-4 continua
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