VENTIQUATTRO
Don Marco era entrato nel buio delle scale.
Ancora una volta. Nel salirle con attenzione, contava il prezzo di quel
rischio. Era più pericoloso stare sul tetto o dentro casa? Quante le
possibilità di salvare l’altro giovane? E queste aumentavano operando sul tetto
o cercando di tirarlo fuori da sotto? Salvarlo: era quello l’unico metro di
giudizio. E ad evitare il rischio ci avrebbe pensato Padre Eterno. Era sicuro
della protezione divina, che gli spettava perché stava facendo una buona
azione. E Dio protegge i suoi figli. O no? Quella negazione sostava in lui,
insieme alle troppe immagini di disgrazie che smentivano la misericordia di
Dio. Morte a chi avrebbe dovuto meritarsi la garanzia di una vita sicura. Il
mistero di Dio era anche in quel rischio. No, non poteva far conto di nessun
soccorso dall’alto. Ma intanto pregava e saliva verso un locale che non si
riconosceva più, facendosi luce con una pila troppo debole. Chiamava, nella
speranza di ottenere risposta.
Silenzio, il
rumore dei suoi passi, il colpo secco delle pietre che rotolavano verso
l’uscio, voci da fuori, la sua tosse, quella polvere lo stava avvelenando. Si
fermò. Frugò in tasca. Prese un fazzoletto e se lo legò davanti alla bocca.
Tornò ad affacciarsi nel poco spazio di un locale invaso dal terremoto, fece
luce nella direzione del ragazzo. Morto? Morto certamente, per quanto poteva
giudicare lui. Ma la luce era fioca e i margini di errore elevati. Pregava che
il Signore, padre buono, lo dimostrasse anche in quel caso, pregava che il
ragazzo non stesse soffrendo al limite dell’umano patire, pregava di non
scappare alla prospettiva di un nuovo crollo. Don Marco pregava sempre, era una
cantilena che dall’anima gli si fermava sulle labbra. Senza quella forza fuori
di lui non avrebbe retto il suo stare lì dentro.
Dalle voci
confuse che filtravano dall’aia intuì che stavano calando la ragazza, qualcuno
sosteneva che era certamente viva, aveva mosso un braccio e il prete ringraziò
Dio.
Ma perché
era entrato? Era contro ogni logica stare all’interno, la sola possibilità era
liberarlo dall’alto, togliendogli di dosso quel peso insopportabile. Salva la
ragazza, era il tempo di concentrare le forze sul giovane. Sentì qualcuno che
gridava: “Ma quel prete è dentro casa? E’ matto?” Una donna si affacciò nella
luce dell’uscio, guardò verso di lui: “Reverendo” disse, “stia attento, venga
fuori, è troppo pericoloso.”
Non c’era
possibilità di salvarlo dall’interno della villetta. Il suo era un rischio
stupido. Irragionevole. Fosse venuta giù la casa sarebbe morto per una
leggerezza, per un atto istintivo.
Ma era
entrato per vederlo. Avrebbe desiderato accarezzarlo, confortarlo. Lui, prete,
non poteva non esserci, la sua presenza vendicava il silenzio di Dio, gli dava
un suono.
Non c’era
ragionamento, comunque. Don Marco aveva scelto perché lo sentiva un cammino
naturale. Una delle rare decisioni nate così. Un’idea facile da seguire, senza
i pro e i contro di ogni atto ponderato. La qualità del comportamento –un
continuo ragionare, saggiamente, per non sbagliare- aveva montato i pezzi del
giocattolo complicato che era stata la sua vita sino a quella notte di aprile.
Così anche da giovane, quando aveva deciso di entrare in seminario. Così
sempre.
La donna si
era allontanata dall’uscio. Don Marco discese qualche gradino. Si sedette.
Avrebbe dovuto scappare fuori e tornare fra le tegole, scorticarsi le mani. Ma
avevano notato che nella presunta zona dove era sepolto il ragazzo gravava una
trave appesantita dalle macerie, non ce l’avrebbero mai fatta a sollevarla
senza l’aiuto di una gru. O di tanti altri uomini sul tetto, con il pericolo di
un crollo.
Si sedette.
Si senti all’improvviso stanchissimo. Scoppiò la fatica di molte ore di lavoro.
Ma forse era una fatica più profonda, una delusione che gli stava tarlando
l’anima.
La testa
pesante gli cadde sulle mani. Pianse. Si sentì tradito. Nel luogo del dolore,
della sconfitta risentì il lamento del Cristo in croce: perché mi hai
abbandonato? Il crocifisso lo chiedeva a suo Padre, a Colui che avrebbe dovuto
amarlo più di ogni altro.
Erano tutte
castronerie. Era un’invenzione. Ecco che tornava il dubbio atroce. Sempre così.
Negli spazi di euforia, di successo, di bellezza, Dio era inconfutabile. Nel
dolore del mondo, nel gemito dei corpo feriti Dio si faceva necessaria trovata
dell’uomo. Sempre così, ma don Marco sapeva come fare per liberarsi da quel
sospetto lancinante. Era in grado anche di giustificarlo, di fronte ai fedeli,
lui sul pulpito, con il Vangelo all’ambone, davanti, scritto a grossi
caratteri, perché non ci si potesse confondere con altre parole divine. Sapeva
trovare la strada teologica, biblica, filosofica e –se era il caso, a seconda
di chi stava ascoltando- anche parole semplici per confortare e assicurare la
protezione di un Padre amorevole. E in ogni caso restava l’ultimo approdo, la
resurrezione. La via d’uscita era comunque assicurata. Bisognava crederci: se
no, che fede sarebbe stata senza quell’esito? Lo diceva San Paolo, un illustre
uomo di Dio, uno che dopo aver tradito aveva scoperto la verità. Uno che aveva
saggiato l’altra versione della vita, quindi se ne intendeva, non poteva avere rimpianti.
Dalla luce
dell’uscio saliva l’odore della tragedia. Freddo, parole, terra e polvere,
pianti e gli ordini precisi del tenente colonnello dei Carabinieri, che aveva
visto arrivare con la camionetta. Don Marco provò a scrollarsi la testa: per
svegliarsi da un incubo, per cercare di mettere in ordine i pensieri come si fa
col setaccio, separare il buono dallo scarto, mondare la verità dalle
bugie.
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