VENTIDUE
A don Marco
occorse molto tempo per strisciare da sotto, ridiscendere le scale interne e
portare la notizia. “L’ho visto…li ho visti. Il ragazzo è vivo…La ragazza…forse
erano i suoi capelli….non ne sono sicuro, però. Non dà segni di vita…”
La giacca
grigia di don Marco era lacerata, un paio di bottoni erano saltati, i pantaloni
sporchi, le scarpe nere, lucide, avevano la punta consumata, rigata. Era
sudato, nonostante la temperatura piuttosto rigida.
Le poche
persone riunite in quel cortile presero coraggio. I due sul tetto sbracciavano,
fecero segno al prete di salire, di spiegare anche a loro cosa aveva visto.
Avrebbero trovato insieme la strada per raggiungerlo.
“Venga su,
venga su” urlava Giorgio.
Don Marco
s’arrampicò sulla scala, a fatica, e si portò sul tetto.
“Sì, ci
sono, uno è vivo, respira..la ragazza, mi pare non ci siano speranze per lei.”
“Che si fa?”
chiese Peppo.
“Da dentro è
impossibile” disse il sacerdote.
“E allora?”
“Qui sopra?”
“Lo vede
anche lei” disse Giorgio. “E’ impossibile.”
“Ma dobbiamo
tentare, in ogni modo” disse don Marco. “Non possiamo aspettare aiuti, non c’è
tempo.”
I tre si
guardarono. Quell’attesa, quel mettere in comune la disperazione era già una
perdita di tempo. Si piegarono e ripresero a lanciare verso il cortile il
materiale. Ora potevano spostare anche pezzi più pesanti.
“Adagio…piano…”
diceva Giorgio.
“Più a
destra, direi di provare più a destra” disse don Marco. “Qui siamo fuori, il
letto è al centro del locale.”
“Dica lei,
che ha visto.”
“Tentiamo”
disse il prete.
“Tentiamo”
disse Giorgio.
***
Nel prendere
fiato, dopo almeno mezz’ora di lavoro, don Marco diede un occhio al cortile,
che si andava riempiendo del carico che liberavano dal tetto. Erano rimasti
solo in tre: la donna che diceva di conoscere la padrona di casa, un ragazzo
che faceva la spola fra quel cortile e uno vicino, e una signora molto anziana.
L’avevano fatta accomodare su una poltrona, l’avevano fasciata in coperte pesanti
e lasciata lì, sola. Teneva la corona del rosario in mano. Gli altri
probabilmente erano andati a controllare le loro disgrazie, ad aiutare altri
bisognosi, a pregare nella chiesina, a bestemmiare, a piangere.
Don Marco
aveva saputo che il luogo di culto del paese era rimasto intatto, e solo da
poco era arrivato chi custodiva le chiavi. Aveva aperto, lasciando che vi
entrassero gli sfollati.
Si sedette
sul tetto. Guardò Giorgio e Peppo che continuavano a buttare di sotto materiale
con una foga ingiustificata. Non sarebbero mai arrivati sino a loro. Stava
vivendo dentro un’allucinazione, che diventava incubo quando ripassava le
sequenze delle ultime ore, un tempo vero, una cronaca disgraziata della quale
si sarebbe parlato a lungo. Ma lui che ci stava
a fare lì seduto? Perché non aveva dato retta alla prudenza? Alla
riflessione? Perché aveva svoltato, dirigendosi al paese? A Roma lo
aspettavano. Seguire il Vangelo era correre dietro alla prima voce dell’anima,
o attendere che parlassero anche tutti gli altri suggerimenti? Era stato così
irrazionale da doversene pentire, ora, lassù, sporco insieme a gente
sconosciuta, mentre l’alba regalava altre atrocità a quella ribellione della
terra?
Era stanco,
infelice, confuso. Anche fossero
arrivati sino a quei due disgraziati, li avrebbero trovati certamente morti, e
se non morti, feriti irrimediabilmente. A questo pensava don Marco, riflessioni
che deragliavano cercando altri binari, più vicini ad un’umanità che avrebbe
dovuto accompagnare un uomo di Dio.
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