VENTUNO
Romano si
svegliò. Qualcosa lo stava sfiorando sul naso. Sulla bocca. Una mano, le dita
di una mano e una luce che lo feriva. Una voce, una filo sottile che lo
collegava al mondo dei vivi. Don Marco, strisciato sin lassù, sdraiato, teneva
con la sinistra la torcia e con la destra, allungandosi il più possibile,
nell’anfratto che era rimasto aperto sotto il tetto crollato, lo accarezzava.
“Mi senti?
Rispondi. Muovi la testa se mi senti” urlava don Marco.
Romano non
capiva. Era stordito, ma appena trovava un po’ di luce nella mente la chiamava
“Roberta, Roberta…”. Romano avrebbe voluto gridare ma usciva solo un rantolo,
che don Marco cercava di interpretare, trattenendo la gioia. Il ragazzo era
ancora vivo.
“Cosa dici?
Dai, parla, dai….” e intanto gli illuminava il viso. Romano aveva gli occhi
serrati, il viso sporco di sangue e di terra, ma altro non riusciva a
identificare di lui. Solo il nero di quella notte senza luci artificiali e un
volto irriconoscibile. In quei rantoli don Marco pensò di aver capito che stava
chiamando la sua ragazza. Fece luce intorno, per quel poco che riusciva. Era
incastrato anche lui, con quintali di materiale che avrebbe potuto schiacciarlo
alla prossima scossa. Non vedeva che macerie, mattoni, tegole e le gambe
metalliche del letto.
Ma non era
il momento delle domande e delle risposte. Solo una la domanda, come liberarlo.
Non c’era altra via che togliere da sopra il peso che lo opprimeva. Con tutti i
rischi di quella operazione. Con tutte le cautele. Ma dalla posizione del
sacerdote ogni intervento sarebbe stato impossibile.
Ora
quell’uomo non diceva più nulla. Morto? Don Marco cercò di far luce per
cogliere il movimento del respiro, il tremore delle labbra, segnali di vita.
Girò ancora con il tondo luminoso, distingueva bene una gamba del letto,
piegata dal peso enorme del terremoto. Vide qualcosa fra i sassi. Erano
capelli. Probabilmente.
21 - continua
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