DICIASSETTE
Romano
riprese conoscenza. Cercò di aprire gli occhi. Entrò terra. Li richiuse.
Sentiva lo scarto più sottile del terremoto sfregare contro il bulbo, pungere.
Non poteva muoversi, non poteva usare le nocche delle dita, anche di una sola
mano, nel gesto di sfregarsi gli occhi, per liberarli da un corpo estraneo che
infastidisce. Cercò un respiro più profondo ma altra terra entrò in bocca,
tentò di buttarla fuori con la lingua, sentiva il sapore del mattone, del
sangue, dei suoi denti. Riusciva a compiere piccolissimi respiri: aumentarono,
moltiplicati dall’angoscia. Era incastrato sotto al letto. Non poteva aprire
gli occhi, ce la faceva solo a spostare per pochi centimetri il capo, sfregando
il mento contro il pavimento. E Roberta? Non riusciva a chiamarla, non la
sentiva, nella testa gli girava un ronzio continuo.
Urlò dentro
di sé tutta la sua paura, la rabbia per averla portata in quella tana, il
terrore che fosse morta e che sarebbe morto anche lui. Non avrebbero avuto
scampo. Minuti, ore e la fine di tutto. Voleva morire subito. Aveva freddo. Il
suo corpo era dolore e angoscia. Si sentì svenire, soffocare, non c’era più
fiato, non riusciva a sentirselo dentro, a soffiarlo fuori. Gli parve di
sentire voci e rumori di passi sopra di lui, tegole che si muovevano. Tornò il
silenzio.
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