QUATTORDICI
Don Marco
doveva essere a Roma alle sei. Non gli pesava viaggiare in auto di notte: il
silenzio, un traffico più quieto, la compagnia della radio, soprattutto musica
classica. E aveva mantenuto la calma anche quando era stato costretto a
lasciare per un tratto l’autostrada, causa lavori. Conosceva bene quella parte
d’Italia, una ventina di chilometri sulla statale e poi di nuovo in autostrada.
Tamburellava le dita sul volante seguendo Bach. I polpastrelli rimbalzavano
a ritmo con il movimento della corona
del rosario; il Cristo in croce pendeva come un impiccato dallo specchietto
retrovisore.
Si passò le
mani nei capelli, che pettinava all’umberta, come suo padre. Capelli radi, e
gli dispiaceva, ma per i suoi sessant’anni potevano bastare. Ciò che davvero
gli dava fastidio era il peso, un addome che gli si gonfiava, cosce possenti e
un viso tondo, che facilmente arrossiva, e non per vergogna. Quanto meno non
aveva rughe. Don Marco imputava quella sua grassezza all’impossibilità di
praticare sport: non aveva più tempo, e non possedeva più il fisico. Le
articolazioni lo reggevano in piedi. Camminare a lungo non era più possibile,
correre impossibile, se non per brevissimi tratti. Era stato un calciatore di
buon livello, attaccante; non fosse stato per la vocazione sacerdotale, avrebbe
fatto carriera; ne era certo, in seminario nessuno come lui. Più gli anni
passavano, più la scelta di offrire a Dio anche quella passione diventava
faticosa. Ad Abramo era stato chiesto il sacrificio del figlio, poi
risparmiato, a lui la rinuncia ai gol, ma nessuno glieli aveva restituiti.
Questo significava venti chili di troppo, distribuiti su un corpo tarchiato, a
botte.
Ma ciò che
non perdonava a Dio era il Suo silenzio. Deus absconditus: bastava leggere i
Salmi per sapere in anticipo che Dio sarebbe stato anche assenza.
Viaggiava
verso Roma a motivo di una nomina. Stava facendo carriera ecclesiale, avrebbe
aggiunto un altro titolo nobiliare. Sapeva di non meritarselo, la sua fede era
inconsistente. Si vergognava di ciò che avrebbe raccolto nella Capitale, ma non
era in grado di rinunciare agli applausi del mondo.
Viaggiava a
non più di sessanta all’ora, un tratto di strada in salita, sull’Appennino, con
scarsa illuminazione. Doveva usare gli abbaglianti. Fu in quel segmento di
viaggio che sentì l’auto traballare. Pensò di aver preso una buca, o forse era
solo asfalto sconnesso. Forse stavano rifacendo il manto stradale, e in quel
tratto avevano grattato l’asfalto vecchio. Ma non aveva incontrato cartelli di
lavori in corso. Per prudenza rallentò.
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