TREDICI
La notte di
buio e di stelle aveva smorzato il ritmo del traffico. Tante auto nei due sensi
di marcia, soprattutto ritorni dal fine settimana. Roberta aveva accennato ad
addormentarsi un paio di volte, Romano era tenuto sveglio dal desiderio.
“La prossima
è la nostra” le disse e guardò l’orologio sul cruscotto. Erano le dieci e
ventidue, ancora mezz’ora fra statali e provinciali e sarebbero arrivati.
“Ci siamo?”
disse lei.
“Alle undici,
non prima” e intanto ripassava la strada che aveva percorso spesso, non negli
ultimi anni, preso dal lavoro. Mai di notte. Una cittadina, due o tre paesi e
la salita al colle, uno fra i tanti di quella parte d’Italia, terra di boschi
di faggio e di castagno. Meno di un’ora e sarebbe arrivato nella casa dei nonni
materni. Dentro quei locali, correndo nell’aia, rovistando nel pollaio aveva
raccolto i ricordi migliori della sua infanzia. E la morte dei nonni era stato
il suo primo incontro con il dolore. Il nonno era basso, secco, gambe curve da
fantino, labbra furbe e piccoli occhi infossati; la nonna era tonda per i
chili, regalo delle gravidanze, ma lì nessuno si fermava e lei s’era fatta
curva di schiena e non si sarebbe più messa dritta. Senza dar peso alla
deformità continuava a voler bene a suo marito, a servirlo e a servire la
terra, il piccolo orto, i pochi animali che mantenevano con cura, e con mano
ferma sgozzavano per ricavarne i gustosi pranzi che Romano adorava: la pelle
croccante del pollo, il coniglio in bottacchio con le olive nere.
La casa dei
nonni: una porticina con la tenda fatta di fili di plastica che si metteva
d’estate, quando la porta era sempre aperta. Una scala ripidissima, dai gradini
alti che per montarci sopra doveva tirar su il ginocchio. Prima della scala,
sulla sinistra, una grande cucina dove mangiavano, ma alla festa si saliva ai
piani alti, nella sala buona, con il pavimento di grosse piastrelle rosse
squadrate malamente e rosicchiate dal tempo. Sulla destra le camere. Il bagno
era stato progettato dopo, segno di una modernità che aveva dato dignità alla
vecchia latrina, un gabbiotto di legno grezzo sistemato in fondo al cortile.
La casa
antica comprendeva il pollaio, galline, conigli e la prima erba che aveva
imparato a tagliare col falcetto e a dare in pasto alle bestie, con immensa
soddisfazione. Una casa fatta di odori buoni, che salendo dalla cantina di
prosciutti e salami e vino in botti erano penetrati nei mattoni e
nell’intonaco, nella credenza, nel tavolo e sulla vecchia ottomana.
I nonni se
n’erano andati, più vecchi che giovani ma sempre prematuramente per lui; senza
di loro non ci tornava volentieri in quella casa d’Appennino, tessera del
mosaico di un paese anziano, senza futuro, abbandonato lassù ai vecchi e agli
animali, con poche case ristrutturate e tante abitazioni abbandonate. Ma
andarci con Roberta era come ritrovare felicità in quella strada, giunta agli
ultimi tornanti.
***
“Che ore
abbiamo fatto?” disse Roberta in mezzo a uno sbadiglio.
“Ti avrei
svegliata” disse Romano. “Ci siamo, te l’avevo detto, mancano tre minuti alle
undici.”
“Era ora.”
“Dillo a me.
Che fai?”
“Mando un
messaggio ai miei.”
“Ti
dispiace?” e le allungò il suo cellulare. “Prima che rompano i coglioni.”
Arrivò
l’ultima curva, un tratto in piano, svolta a destra, il cortile. Un solo,
piccolo lampione mandava scarsa luce sulla ghiaia, che venne rimestata dalle
ruote e rantolò.
Romano frenò,
spense il motore, le luci: “Salta giù, ci siamo” le disse.
La notte era
fresca. Un gran silenzio, buio.
“Ma siamo
soli?” chiese Roberta. “E’ un paese fantasma?”
“Più o meno.”
Presero le
valigie. Nel silenzio grande lo sferragliare della chiave nella toppa si
amplificava. Roberta dava un po’ di luce col suo cellulare.
“Ma ci vedi?”
“Ci vedo, ci
vedo” e la porta si aprì. “Il problema è trovare l’interruttore centrale.”
“Ci voleva
una torcia.”
Romano
brancolò, tastò, chiese la luce fioca dello schermo del telefonino, aprì una
piccola anta, mise le mani in altro buio, trovò l’interruttore. Fu luce sulla
ripida scala, e subito dopo si accese anche la lampadina della grande cucina
sulla sinistra.
Romano
ritrovò il profumo dell’infanzia. Ma era stanco e senza voglia di ricordi.
“Qui dovrebbe
esserci un divanoletto.”
“Che è
questo” e Roberta indicò il solo divano nel grande locale, con tavolo, una
vasca più che un lavandino, una cucina economica a legna e carbone.
“Se vuoi
dormiamo qui.”
“Se no?”
“La camera
dei miei nonni, di sopra.”
“E i tuoi
cosa dicono?”
“I miei?” e
rise.
Roberta prese
tempo, perlustrò la cucina, guardò la lampada che mandava una luce
insufficiente. Scelse: “Di sopra, se ti va.”
“Come vuoi
tu” e prese le valigie.
La scala era
ripida e stretta, coi gradini consumati, i bagagli rendevano la salita
difficoltosa. La piccola porta che immetteva nel tinello cigolò, Romano trovò
subito l’interruttore sulla destra. C’era umidità, freddo. Da mesi nessuno
entrava più lì dentro. Si pentì di averla portata in quella topaia.
“Che
facciamo? Accendiamo il fuoco?” chiese Romano. “Qui si ghiaccia.”
“Ma non è
tardi?”
“Il camino
c’è, la legna anche, non ti garantisco, non lo accendo da una vita.”
“Ma se andassimo
a dormire?” disse Roberta.
“In camera
dovrebbe esserci una stufetta elettrica.”
“Basterà
quella.”
“Intanto
vediamola, la camera.”
Un corridoio
di un paio di metri, un’altra porta sulla destra, con i vetri smerigliati. Un
altro interruttore e sempre una luce ridotta, che lasciava nel mistero buona
parte del locale.
Si vedeva il
letto; l’armadio, il comò, un’ottomana erano ombre in bianco e nero.
Roberta si
lasciò andare sul materasso, la rete metallica cigolò, s’alzò della polvere.
“Sono sfinita” e si mise a ridere. Pareva soprattutto felice.
Romano passò
un dito sopra il piano del comò, raccolse sul polpastrello polvere grassa,
umida. Dentro di lui girava un’emozione che andava controllata.
“Aspetta”
disse Roberta. “Dov’è il bagno?”
“Qui, ti faccio
strada.”
“La doccia?”
“La doccia?
Massimo ci sarà un doccino nella vasca. Vediamo.”
“Ma ci sarà
l’acqua calda?”
“Fra due o
tre ore. Dobbiamo accendere il boiler.”
“E come ci
laviamo?”
“Non ci
laviamo.”
“Facciamo
scaldare una pentola d’acqua.”
Entrarono ma
in due non ci stavano: lo spazio era occupato da una vasca in ghisa laccata, a
forma di poltrona, dove era impossibile sdraiarsi. Romano aprì il rubinetto del
lavandino, ne uscì acqua a singhiozzi, di un colore scuro di ruggine e terra;
con lo scorrere l’acqua divenne trasparente. La sfiorò: “E’ un ghiaccio.”
“Io la faccio
scaldare. Trovami una pentola, per favore.”
***
La pentola fu
trovata, e anche un fuoco a bombola di gas liquido. Non fu recuperata, invece,
la stufetta elettrica, che avrebbe dovuto scaldare la camera da letto.
Romano aveva
fatto alla svelta, una sciacquata, si era sfiorato il mento, la barba pungeva,
le avrebbe dato fastidio. Si era messo nel letto, rabbrividiva, le lenzuola
erano freddoumide, c’era odore di chiuso, di vecchio. La mobilia aveva perso il
buon profumo di legno, tarlata dalle bestie e dal tempo. Sopra di lui un
lampadario con una lucina da trenta watt, non di più. Il letto dei suoi nonni
era una rete metallica alta da terra quasi un metro, con una testata d’ottone lavorato
ad arabeschi e volute. Si mise a dondolare sul materasso, sentì il canto delle
maglie metalliche.
Dietro i suoi
capelli, lunghi per nascondere un principio di calvizie, appeso alla parete
pendeva un grosso quadro della Sacra Famiglia. Il crocifisso stava sul
comodino. Sul comò foto in bianco e nero e uno specchio; i suoi nonni lo
curavano, vestiti con gli abiti nuovi del loro matrimonio. Si chiese se quello
ero lo stesso materasso sopra il quale era stata concepita sua madre.
Sentiva
Roberta nello sciabordio dell’acqua. Cercava di non immaginare nulla.
“Muoviti, fa
freddo” le urlò, sapendo che difficilmente avrebbe sentito. Continuò il rumore
dell’acqua sopra Roberta. Lei non rispose.
Silenzio.
L’acqua non sbatteva più. La luce del minuscolo bagno si spense, la porticina
cigolò, restava la modesta illuminazione del lampadario sopra il letto.
Roberta
entrò. Indossava un pigiama giallo tenue. Sembrava una tuta da jogging.
“Che freddo
che freddo che freddo…” e scivolò nel letto, non lo abbracciò, non si svestì,
non lo accarezzò. Si accomodò sul fianco sinistro, sul lato destro del letto
grande, si raggomitolò come una gatta pigra e freddolosa, si lamentò più volte
per quell’aria gelida, per quell’umido che bagnava il lenzuolo, disse che era
stanca morta e gli augurò la buona notte.
Romano
ammutolì. Scherza o fa sul serio?
“Buonanotte”
ripeté Roberta.
Aveva capito,
certo che aveva capito. Romano rispose con una voce offesa, lamentosa. S’alzò
per spegnere la luce. Non c’erano abatjour sui comodini.
“Che fai?”
“La luce.”
“No. Lasciala
accesa.”
“E perché?”
“Ho paura.”
“Ci sono io.”
“Non mi
basti.”
“Se lo dici
tu” e tornò sotto la pesante coperta di lana grezza.
Romano si
rapprese nella sua delusione.
Ma la rabbia
cedette al desiderio. Allungò il braccio. Non ci arrivava a toccarla. Si
avvicinò strisciando sul lenzuolo. La rete cigolò. Ora la sfiorava, le
accarezzò la schiena, le dita scivolarono sotto il pigiama, risalì sino ad
accorgersi che era senza reggiseno.
Roberta
tremò, sospirò, si fece più vicina. Disse “Fa freddo” e restò immobile.
Lo stava
spiazzando. Confondendo. La voglia di lei dilagava, aveva rotto gli argini ma
la temeva. Stava ragionando troppo. Non doveva andare a finire così. Muti
nell’imbarazzo.
Lei sul
fianco e lui sul fianco, addosso, a curarsi, a spiare la reazione, pronti ad
un’altra mossa. Ma era amore o una battaglia? Non avrebbe dovuto essere tutto
più semplice? Lo scontro violento di due passioni? La soluzione di una lunga
attesa?
Romano le
toccò l’addome piatto, teso. Con l’indice penetrò nell’ombelico. Lei disse “Mi
fai il solletico” e si scansò; lui non capì se quel tono era scherzoso o
irritato.
Salì con la
mano e lei cambiò il ritmo del respiro e lui le accarezzò i seni. Era la prima
volta che li sentiva. Prese aria in lunghi respiri mentre lei gli guidò la mano
più in basso.
Lui disse
“Aspetta” e si tolse i boxer, cercò sotto il cuscino, con il gomito picchiò sul
comodino, il crocifisso cadde, imprecò a mezza voce, lo trovò, lo aprì coi
denti.
“Io” gli
disse e cercò la sua mano.
“Ma sei
scema?”
“Perché?”
Con la gola
riarsa dall’ansia disse “No, no” e lei lo sfiorò. Aveva dita sottili, unghie
lunghe e curate, smaltate di rosso. Le sentì come fuoco sulla sua carne viva.
Le allontanò.
“Che
c’è?”
“Niente”
rispose lui, con una voce cretina, in falsetto. Roberta si mise seduta. Si
spogliò. Non aveva più freddo, non si lamentò per essere finita dentro un letto
che sapeva di muffa.
“Mi baci?”
gli disse, salendogli sopra.
Lui perse
ogni controllo. Gli morì in gola un ti amo che non uscì, ma addolcì rabbia e
vergogna. Buttò indietro lenzuolo e coperta e andò in bagno.
“Stai qua”
gli disse Roberta. “Fa freddo.”
Tornò quasi
subito. Tremava.
Roberta si
era già rivestita. In equilibrio sul fianco, pareva addormentata. Ma aveva gli
occhi aperti, e fra gli occhi e le labbra si rincorreva un sorriso.
***
Romano si era
addormentato. Incazzato com’era con se stesso, si era già disposto ad una notte
di veglia e di rabbia. Invece aveva preso sonno.
Fu svegliato
dalla sua mano che si arrampicava, si infilava, lo cercava. Poi si allontanò.
Era ancora vestita. Uscì da sotto la coperta, veloce. Si mise in ginocchio di
fianco a lui, con la fronte a una spanna dalla Sacra Famiglia. Si sfilò la
giacca del pigiama. La luce era ancora accesa. Si sedette, dondolò sulla
schiena e si sfilò i pantaloni, che lanciò contro la parete. Il pigiama andò a
finire contro il quadro.
“Dove sono?”
gli chiese, sdraiandosi sopra di lui ed allungandosi verso il comodino.
Romano si
alzò, cercò nella tasca del giubbotto, ne sfilò uno.
“A me” disse
Roberta.
Romano si
svestì con lentezza mentre Roberta diceva: “Non l’ho fatto mai.”
Romano si
sdraiò e l’attese.
“Mi aiuti?”
disse Roberta.
Romano si
sedette, appoggiando la schiena alla testata in ferro battuto. Erano tubi
ghiacciati. Stava scomodo. Cercò di trovare un compromesso nella posizione.
Teneva le gambe allungate, Roberta si sedette sulle sue cosce.
“Dammi” disse
Romano.
“Io” disse
Roberta.
Romano prese
le sue mani, le guidò, si piegò verso di lei, la abbraccio, cominciò a
baciarla. La fece distendere di schiena sopra le sue gambe allungate.
Ora i piedi
di Roberta spingevano sulla parete; facendo pressione sul muro si inarcò.
Romano si
piegò in avanti, puntellandosi alle braccia. Continuò a baciarla sin dove
poteva arrivare senza lasciare l’appoggio, in ogni piega.
Roberta si
appoggiava, scendeva col bacino e scappava, tornava ad alzare i piedi verso il
quadro, a spingere, a sfuggirgli; sentiva freddo sotto la pianta dei piedi,
doveva fare attenzione a non scivolare.
Romano la
prese ai fianchi, lei disse ridendo che aveva capito. Si distese supina di
fianco a lui, allungando le braccia verso la testata del letto. Si sentì il
rumore metallico dei suoi anelli, che cozzarono contro l’ottone lavorato. Si
agganciò a due volute.
Romano si
sedette sopra di lei, piegò le gambe divaricate, si appoggiò alle ginocchia,
chiuse gli occhi e cominciò ad accarezzarla con la punta delle dita.
Roberta
liberò una mano, che lasciò la testata e prese la mano di Romano, accompagnandola
sopra il suo seno. Sganciò anche l’altra mano e le congiunse, tenendolo fra le
due palme. E insieme muoveva ritmicamente il bacino, le molle stridevano, il
solo rumore nella camera che aveva l’odore acre del tempo passato, rumore di
ferro arrugginito e il soffio dei loro respiri.
Lei disse
“Scendi, sdraiati.” Romano ubbidì. Roberta si allungò sopra di lui, lui
avvicinò le gambe, lei le aprì e infilò le dita nei suoi capelli. Salì ancora e
si aggrappò alla testata del letto, che si piegò in avanti.
Lo sentì
scivolare dentro, corrergli incontro.
Nessuno
avrebbe potuto fermarli, ora. Non gli sguardi dei nonni in abito da nozze,
sorridenti ma seri davanti alla grande macchina fotografica; e nemmeno il Dio
della croce e della Sacra Famiglia né la paura di fare troppo sul serio, troppo
alla svelta.
***
La luce
nella camera era ancora accesa. Roberta si era addormentata subito, dopo
essersi rivestita senza dire una parola. Romano avrebbe voluto domandarle se
era felice.
Roberta era
il respiro profondo del suo sonno.
Romano
cambiò fianco, poi si mise a pancia in giù, buttandosi il cuscino sopra la
nuca. Stava bene. Il mattino dopo avrebbero potuto dormire sino a mezzogiorno.
E dopo la colazione nell’unico bar del paese, sarebbero tornati a letto.
Se la
sentiva addosso, anche se il piacere del suo corpo si diluiva nel buio della
notte. Era solo l’inizio.
Era ancora
nudo e cominciava ad avere freddo. Pensò di rivestirsi. Si alzò curando di non
svegliarla, cercò i boxer, la tishort, non li trovava, non erano caduti a
terra. Frugò sotto le lenzuola, con la mano perlustrò il fondo del letto, si
erano incastrati fra materasso e coperta, li recuperò, si rivestì alla svelta,
ora tremava, l’umido era tornato ad essere fastidioso.
Si mise supino,
con le mani dietro la nuca. Quella lampadina generava una luce tanto fioca che
poteva fissarla senza ferirsi la pupilla. Tirò verso di sé la pesante coperta
sino a coprire il mento, il naso, aveva fuori solo gli occhi e i capelli.
Sentì un
rumore, forse il gracchiare del cellulare. ‘Un messaggio a quest’ora? Ma chi
cazzo è?’ ed ebbe paura. Allungò la mano destra, tastò il piano del comodino,
recuperò il telefono, no, si era sbagliato. Nessun messaggio in arrivo. E il
rumore? Fece in tempo a leggere l’ora: le tre e ventinove. Non mancava molto
all’alba. Quella notte sarebbe stata con lui per tutta la vita.
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