SEI
Il primo
bacio fu due giorni dopo la serata in pizzeria. In piedi, davanti alla fermata
del tram numero quarantaquattro. Milano sapeva di rotaie, di smog, di aliti
pesanti da fumo e da fatiche mal digerite dopo una giornata di lavoro.
Non erano
soli. Avevano parlato di tutto, anche di Dio. Roberta era stata distratta da
una sua proposta di viaggio, la stava valutando mentre Romano cercava di
presentargliela nel migliore dei modi.
La prima
volta fu al principio di un triste tramonto metropolitana: nuvole vento freddo.
Un freddo che s’attaccava addosso, che cercava il calore dentro vestiti
d’altri. Furono persino banali (“Si gela!” disse Roberta. “Danno brutto per un
po’ di giorni” disse Romano), per non far pesare i rari spazi di silenzio. E
quando Romano le infilò le dita nei capelli e avvicinò il volto di lei al suo,
lo piegò sulla destra e l’appoggiò alla spalla, e le sue braccia la strinsero
tanto da sentire la morbidezza del suo seno, qualcuno fra i presenti,
infreddoliti alla fermata del tram, pensò che quei due erano fortunati. Avevano
trovato il miglior modo per scaldarsi. Un’invidia buona, commossa. Ma altri
provarono invidia rancorosa, fastidio per quel giovane amore nascente e
sfacciato. Una rabbia ronzante e pungente alla bocca dello stomaco, per il
tempo passato e per le occasioni lasciate.
‘Sta morendo
un giorno e sta nascendo una storia’, questa l’idea di Tazio Sacelli, un
dipendente Asl in sosta alla fermata; contava i giorni, era prossimo alla
pensione e nell’attesa scriveva poesie.
Romano l’avrebbe
baciata ma era infastidito dagli occhi degli altri. Le sue dita si
aggrovigliavano nei lunghi capelli all’altezza delle orecchie.
Ora si
guardavano in silenzio, dopo aver parlato per più di un’ora: anche del lavoro
che non esisteva più e di quella mostra d’arte che li aveva fatti incontrare
dieci giorni prima. Anche di Giorgio, che era un cafone ma aveva avuto il
merito di condurla da lui, di farla uscire di casa per un vernissage che prometteva solo distrazione.
“E’ ancora
aperta la mostra?” chiese Roberta.
“Chiude
domani.”
“Avrà
venduto?”
“Dubito.”
“Come si fa
a campare di quadri?”
“Basta
essere la compagna di Sazza.”
“Sazza?”
“Non
pretendo che tu lo conosca.”
”Pittore?”
“Scultore.
Lui sì che vende.”
“Basta anche
per lei.”
“Esatto.”
“Squallido.”
“Squallido?
Sono felici in due” e Romano prese a pedate un pacchetto di sigarette vuoto,
che volò in mezzo alla strada e finì sotto le ruote di una moto. Teneva gli
occhi bassi, parlava ma aveva in mente altro.
Adesso era
anche questione di tempo. Il quarantaquattro stava arrivando, lei sarebbe
salita, lui se ne sarebbe tornato a piedi. Poteva arrivare da un momento
all’altro. Ci sarebbero state altre occasioni, naturalmente.
Più d’uno
aveva guardato l’orologio, ripetendo alla sua voglia di casa che il solito tram
si era perso nel solito ritardo, causato da un traffico feroce.
Romano era
indeciso. Ora sarebbe stato troppo affrettato. Il silenzio fra loro durava
troppo.
“A cosa
pensi?” domandò Roberta, pentendosi per averglielo chiesto.
Romano
allora smise di pensare. Lei chiuse gli occhi. Lui continuò piegando il capo
sulla destra e lo stesso fece lei, adagio, aprì gli occhi, sorrise e li
richiuse. Ora le sorrideva tutto il viso.
Nemmeno il
tempo di gustarlo quel loro primo bacio perché il quarantaquattro arrivò con
soli due minuti di ritardo: Roberta lo sentì dire da Tazio Sacelli, che aveva
già in testa una nuova poesia. Avrebbe preso nota sul tram, in piedi, con una
scrittura imprecisa, tremante nel traballio del mezzo pubblico.
Roberta
quasi scappò via da lui. Salì. Scomparve nella ressa serale dei milanesi.
Riapparve.
Romano alzò
la mano destra e la salutò. Roberta gli mostrò la punta del naso appiattita
contro il vetro posteriore del tram, dopo che con la mano lo aveva liberato
dalla condensa.
Romano
abbassò la mano: la felicità gli scoppiava dentro, colorata e rumorosa come uno
fuoco pirotecnico. Anche Roberta viaggiava nella gioia, un dolce fastidio
andato a nascondersi in fondo allo stomaco.
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