SETTE
“Sei proprio
sbroccato” disse Carlo, osservando l’amico mentre imburrava una fetta
biscottata.
“Cioè?”
disse Romano, mentre la fetta si sbriciolava sotto il peso di una lama di
coltello malgestita.
“Fischietti!
Canticchi!”
“Invidia?”
Carlo lo
guardò con occhi addormentati: “Chi è? Sempre quella della mostra?”
Romano
raccolse ad uno ad uno i pezzi della fetta e li mise a mollo nel caffèlatte.
“Si chiama Roberta. Roberta.”
“Sbroccato
fatto…”
“Guarda che
sta salendo il caffè, curalo” disse Romano.
“Povero
caffè, sta eiaculando!” disse Carlo.
Raccogliendo
con il cucchiaino le porzioni di fetta biscottata rammollita, con il burro
sciolto nella tazza in macchie galleggianti, Romano sentiva Roberta che
dilagava nelle sue vene. Una piacevolissima tracimazione, che lo ripuliva dalle
ansie, dall’apatia. Sarebbe stato sempre con lei, giorno e notte. Con lei non
c’era calcolo, nessuna paura, solo l’immenso piacere di regalarsi.
Il cellulare
di Romano vibrò, andando a cozzare contro la tazza e mandando ronzii con echi
di porcellana. Era un messaggino Vodafone. Ma Roberta si affacciava anche dallo
specchietto del telefono, che lui raccolse, pensò, scrisse ‘Sei al mio fianco,
ora’, cancellò, scrisse di nuovo: ‘Sei qui con me. Ti amo.’ Cancellò di nuovo,
intanto Carlo stava versando, mano destra, il suo caffè nella tazza, mentre con
la spugna nella mano sinistra puliva dove il caffè era fuoriuscito sui
fornelli, con gesto furtivo, per non farsi sorprendere e sgridare. ‘Perché non
sei qui adesso?’ ma anche questa versione di saluto non era la più appropriata.
“E scrivi
che vuoi andarci a letto” disse Carlo.
“Fottiti!”
disse Romano. Bevve due sorsi e tornò al messaggio. Trovò pace con un ‘Speriamo
arrivi presto stasera. Baci.’
La vedeva
nel fondo della tazza e nelle pagine del romanzo che gli aveva prestato,
‘Chiedi alla povere’ di John Fante, libro che teneva ora sul tavolo. Lo aprì
reggendolo in verticale con la mano sinistra, gomito appoggiato, girava le
pagine con la bocca mentre con la mano destra cercava di portare a termine quella colazione senza appetito. La carta
aveva il suo profumo. Girava le pagine e la accarezzava, la baciava. Non aveva
altri pensieri e altre cure. Al lavoro era distratto, a volte, altre volte era
catturato da un attivismo vorace e scriveva a raffica, saettavano in lui pensieri
folli e dolci, intuizioni delle quali mai si sarebbe considerato capace.
Sbocciavano idee, progetti, frasi che le avrebbe scritto o recitato, luoghi che
avrebbero visitato insieme. Cercava il modo per trattenere più a lungo
possibile quello stato di grazia, che non ricordava di aver mai gustato, forse
perché erano passati tanti anni dagli amori di ragazzo, dalla vista di quella
dolce creatura che s’affacciava al balcone, e lui aspettava quel volto lontano,
mai s’era avvicinato oltre i dieci metri, eppure quella era la sua dea, ai
tempi dell’amore platonico. O da quell’altra, Maria, compagna delle elementari,
figlia di negozianti, bella come Venere, pianeta luminosissimo. O la terza: era
arrivato ad un niente dal bacio, ma il suo cuore batteva tanto forte da
respingerla, da tenerla a distanza, contro il bianco tronco di una betulla.
Mamma mia, che gli stava capitando? Roberta gli aveva tolto quindici anni
almeno.
Carlo si
sedette di fronte a lui, con la sua tazzina del caffè e la sua aria sfatta.
Romano provò pietà per quel ragazzo, che forse non era mai stato innamorato.
Provò pena per tutti gli uomini, ai quali era stata negata quell’esperienza
d’amore.
“Che leggi?”
disse Carlo.
“Fante,
Chiedi alla polvere.”
“Ho visto il
film.”
“Bello?”
“Lei, la
messicana, è da paura. Una gran gnocca.”
Romano era
disturbato da quella volgarità costante, che solo qualche giorno prima lo
lasciava indifferente.
“Sono felice
per te.”
“Balle.”
“Giuro.”
“Sono
cotto.”
“Lo vedo.”
“Non me
l’aspettavo.”
“Meglio
così.”
“Cazzo!” esclamò
Romano, picchiandosi il cervello.
Carlo gli
accarezzò la mano, trattenendo la commozione.
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