UNDICI
Guardando il
sole, per metà nascosto dal contorno ondulato dell’Appennino, Romano si chiedeva
come facesse a non essere felice per quel tramonto, e per Roberta. La rabbia
cresceva al pensiero di uno spreco. Il ritardo alla partenza da Rimini gli
stava rubando piacere. Era arrabbiato con lei ma non avrebbe voluto esserlo,
così altra rabbia si sommava alla prima, aumentando la profondità del disagio.
Finiva la
domenica d’aprile e mancava ancora molta strada alla villa dei suoi nonni.
“Se n’è
andato” disse a Roberta, invitandola a guardare il sole che annegava, lasciando
spazio alla notte. Ma Roberta non aveva voglia di parlare. Guardò il rosso ad
occidente, inquieta: non sarebbero state ore piacevoli. Romano se l’era presa
troppo, aveva reagito come non si sarebbe aspettata, ma come sarebbe stato
normale attendersi: stavano insieme da due settimane, non lo conosceva
abbastanza da renderlo prevedibile. Guardò l’orologio: “A che ora arriviamo?”
“Non prima
delle dieci, buio pesto. Sarà un’impresa trovare la casa.”
Se erano
partiti con tre ore di ritardo la colpa era sua, e lo aveva ammesso subito. Ma a
Romano non era bastato. ‘Partiamo subito dopo pranzo’ gli aveva promesso.
Promessa non mantenuta perché i suoi amici non la lasciavano, i saluti e quel
prete: “Devo parlargli. Mi serve” gli aveva garantito.
Romano, in
attesa, s’era messo seduto su una panchina a masticare il suo disappunto,
guardando l’Adriatico povero di gente in vacanza, un lungomare di coppie
anziane con il cappotto e di giovani in tishort.
Aveva sentito
dire da un gruppo di ventenni che avrebbero fatto il bagno, più a sud, al lido
delle conchiglie. Li aveva seguiti da lontano, andavano veloci, avevano voglia
di tuffarsi nel mare, di dimostrare alle ragazze la loro resistenza al freddo.
Si era seduto
sulla base in cemento di un ombrellone di uno stabilimento balneare, una
casupola triste e disadorna in quella bassa stagione marina. I ragazzi s’erano
svestiti, correvano urlanti verso il mare, le ragazze ridevano, strillavano, si
toccavano dentro come per dire ‘Il mio è più bravo, il mio è scemo del tutto,
quelli sono fuori di testa.’ La sua attenzione si era spostata su una coppia,
lui in costume, a pancia in giù sopra un asciugamano bianco, lei con i
pantaloni corti e una camicetta a mezza manica. Appoggiava le ginocchia sopra
l’asciugamano, le sue cosce combaciavano con il fianco sinistro del suo
ragazzo. Aveva provato invidia per loro.
Era tornato a
curiosare nel tratto di mare dove i ragazzi di prima s’erano tuffati. Ne era
rimasto in acqua solo uno; gli altri, intirizziti, cercavano calore negli
asciugamani e nelle braccia delle loro donne. La ragazza di chi ancora nuotava
si era alzata, era andata sul bagnasciuga e implorava il suo ragazzo di non
fare il deficiente, aveva già dimostrato quello che voleva far vedere, aveva
vinto, stop. Uscito dall’acqua anche l’ultimo temerario, Romano si era messo a
guardare il mare, partendo dall’orizzonte lontano e risalendo a cavallo di
quelle onde senza pretese. Era un mare che non faceva paura ma richiamava ad
una visione infinita. Aveva il culo dolorante, seduto sopra lo stretto quadrato
di cemento, ma la scomodità non gli aveva impedito di pensare a Dio. Pensieri
guizzanti e confusi, disturbati dall’ansia di partire, da un velato disappunto.
Aveva pensato alla probabilità di un Dio inventore di mari e di come avesse
lasciato perdere quel pensiero molti anni prima, seguendo l’onda delle sue
amicizie laiche.
Gli amici di
Roberta erano tornati nella grande sala della riunione, lei stava col prete e
lui considerava che avrebbero avuto solo due notti, ma la prima rischiava di
finire troppo tardi. Sarebbero arrivati stanchi, nervosi dopo un viaggio di
molti chilometri.
***
“Dove
ceniamo?” chiese Roberta.
“A casa non
c’è niente.”
“Autogrill?”
“Per forza.”
Del dialogo
finale col sacerdote lui non aveva chiesto spiegazioni, si era solo lamentato
per la durata. Infastidito dal suo silenzio, quasi avesse ragione lei, ora
pretese: “Perché ti serviva parlargli? Proprio oggi?”
Roberta non
rispose.
L’auto
passava dai centotrenta ai centocinquanta a seconda che l’autostrada salisse o
scendesse, seguendo le gobbe dell’Appennino toscoemiliano.
“Almeno in
galleria puoi andare più adagio?” chiese Roberta.
“Ma se non
supero i centotrenta?”
“Però
continui a sorpassare.”
“Se vuoi che
arriviamo a mezzanotte.”
“Per me.”
“Per me no,
guido io, sono stanco.”
“Anche di me?”
Il sole non
c’era più, si era sciolto nel rosso sopra i monti. Sottili nuvole nere
anticipavano il colore della notte.
“Non dire
stronzate. Perché non mi rispondi?”
Roberta volle
metterlo al corrente. Era importante che lo sapesse. “Abbiamo parlato anche
delle mie paure.”
“Paure?”
“Paure, sì,
tu come le chiami? Non hai paura della morte?” Roberta era seria da mettere
soggezione. “Non sto scherzando. Io ci soffro.”
Romano stava
guidando, avrebbe avuto bisogno di starsene seduto sul divano di casa, o sopra
la sedia di un bar per poter calare in quella domanda, trovare risposte
sincere. Erano questioni che preferiva non approfondire, che scansava sapendo
di non avere risposte. E viveva bene lo stesso.
“E il tuo
amico prete cosa dice?”
Roberta non
rispose subito. “Mi interessi tu. Le tue paure.”
“E chi non ne
ha?”
Capì, non era
il momento: “Ne riparliamo.”
Lui cambiò
registro: “E di me? Hai paura?”
“Quando
guidi” e Roberta si appoggiò alla sua spalla.
“E questa
cos’è?” disse Romano.
“Che c’è?”
“La spia dell’olio.”
“Quella lì
rossa?”
“Sì.”
“Ma non
l’avevi controllato?”
“Come no” ma
era una bugia. Si sentì in colpa: “Speriamo di arrivare al prossimo autogrill.”
Attesero un
paio di chilometri, la scritta ora diceva che dovevano tirare avanti ancora tre
e fu una fortuna, perché di più il motore non avrebbe retto. Fecero tappa
all’autogrill Monte Mario. Era ora di cena.
***
Romano aveva
sotto il mento un piatto di lasagne al ragù, e di fronte lei. Aveva fame, quel
cibo svaporava, mandando segnali gustosi.
Roberta si
era fatta portare un piatto di spaghetti conditi con un filo di olio crudo e
parmigiano reggiano. “Buon appetito” e lei fece il segno della croce.
Romano si
guardò attorno, avrebbe preferito meno chiasso, un tavolo solo per loro; erano
costretti a condividerlo con una coppia di stranieri, bevevano birra e
mangiavano hamburger. Aveva notato che il più obeso dei due, biondiccio di
capelli e con un grosso orecchino, aveva ruttato più volte. Riusciva a leggere l’ora da un grosso orologio
sistemato sopra la cassa. Mancavano tre minuti alle nove.
“Non
arriviamo prima delle undici” disse Romano.
“Un paio
d’ore?”
“Sì, due ore
abbondanti, dipende da quanto ci fermiamo.”
“A me
bastano gli spaghetti.”
Romano se
l’era immaginato diverso quel loro avvicinarsi alla vecchia abitazione dei
nonni. Il pensiero di altre due ore di guida non lo rallegrava. Andava a
momenti. Guardarla, pensarla con lui poteva generargli sentimenti differenti.
Ansia, ma anche tenerezza.
“Caffè?”
chiese Romano.
“Sì, ma se
hai fretta...”
“No no,
ormai.”
Avrebbero
dovuto partire da Rimini nel primo pomeriggio, arrivare al paese prima delle
diciannove “perché il negozietto” gli aveva detto la madre “sono sicuro che è
sempre aperto, anche la domenica, ma chiude presto, se vuoi essere certo devi
essere lì prima delle sette.” Avrebbero fatto la spesa insieme e preparato la
cena. Con calma.
Roberta si
pulì la bocca con un tovagliolo di carta bianco e rosso, con la scritta
dell’autogrill. Lo guardò e rise. Lui trovò quel sorriso molto bello.
“Che hai?”
“Tieni” e
gli allungò un tovagliolo pulito. “Pulisciti il naso.”
“Sugo?”
“Sugo.”
Ora le
faceva tenerezza. Il malumore era tramontato. Si guardò intorno. Un paio di
tavoli più in là sedevano quattro giovani, avrebbero potuto essere studenti al rientro
in università, o ragazzi in vacanza. Probabilmente studenti, perché parlavano
poco, mangiavano senza entusiasmo. Solo lei, la ragazza del gruppo, dava l’idea
di essere felice. Ogni tanto accendeva il dialogo, che si smorzava subito. Ma
ci riprovava. Era una gran bella ragazza, luminosa. Non ci fosse stata Roberta,
fosse stato fra uomini, sarebbe uscito con una frase d’apprezzamento.
Roberta lo
guardò: “Che c’è?”
“Niente.”
“Chi
guardavi?” e si girò. “Quella?”
“Saranno
studenti? Che dici?”
“Boh” ma un
po’ ci rimase male per la sua distrazione. “Vado in bagno.”
“Ordino i
caffè.”
La vide che
cercava la strada della toilette. La sentì sua.
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