DIECI
Aveva fatto
tutto lui, Romano. “Stasera ci vediamo al parco, alle sette ci sei?”
“Ci sono. Ma
che c’è?”
“Niente,
niente, così” ma non era capace di mentire.
Roberta aveva
passato la giornata pensando a quel così che non era vero, e alla probabile
sorpresa che Romano le aveva preparato. Un’attesa che era stata capace di
distrarla nello studio e di regalarle una delicata e costante felicità.
Dal parco
dell’Arena vedeva casa sua. S’erano seduti su una panchina in ombra. I milanesi
sfruttavano quell’angolo di verde in centro per il passeggio, la corsa, per
starsene seduti a ripassare la giornata, a programmare gli impegni futuri e a
cercare un senso a quella vita che se ne andava. Ogni tanto buttava in faccia
agli altri la sua disperazione qualche accattone, sdraiato su una panchina,
seduto a terra, ciondolante senza una meta, con dentro il vortice delle sue sconfitte,
la rabbia di non essere nemmeno capace di farla finita per sempre.
“Dovrei
mettermi a correre anch’io” disse Romano, vedendo passare un uomo della sua
età, decisamente più grasso di lui.
“Hai visto
quello? Ti sei spaventato? Non sei tanto malridotto.”
“Non vorrei
finire così” e si palpò le maniglie dell’amore.
“Comunque,
male non ti farebbe” disse lei. “Potrei farti compagnia.”
“Ma tu sei
magrissima” e le sfiorò la pancia.
“Magrissima
non direi.”
“Se andiamo
insieme mi viene voglia.”
“Basta liberare
le endorfine.”
“Non sono mai
riuscito a liberarle, evidentemente.”
“Ci hai
provato?”
“L’estate
scorsa mi sono preso bene, ho convinto anche Carlo.”
“E allora?”
“Troppo
caldo. Abbiamo rinviato all’autunno, così s’è messo a piovere, è arrivato
l’inverno.”
“E siete
andati in letargo.”
“Più o meno.”
“La primavera
è la stagione migliore. Guarda quanta gente corre.”
In silenzio
si misero a contarli: una ragazza certamente anoressica, un’altra sui
trent’anni, senza seno e con il culo gonfio e flaccido, un palestrato simil
Bronzi di Riace, abbronzato e con gli occhialini da sole, una signora sui
cinquanta, sudatissima, intagliata di rughe scavate dalle troppe lampade, che
correva con gli auricolari e pareva vagasse fuori dal tempo, un vecchietto
smilzo che un po’ correva un po’ camminava, facendosi trainare da un grosso
boxer che rischiava di farlo inciampare.
“Hanno tutti
paura di crepare” disse Romano.
“Un po’ è la
moda.”
“Sarà” e si
toccò di nuovo i fianchi, considerando che non faceva ancora schifo: qualche
seduta di allenamento, in palestra e al parco, e si sarebbe asciugato come una
decina d’anni prima.
Il sole era
timido, l’aria troppo afosa per essere la fine di marzo, Roberta cominciava a
pensare che si fosse sbagliata: aveva solo voglia di stare con lei. Nessun
regalo.
Romano
raccolse da terra e si mise sulle ginocchia la solita borsa nera che nascondeva
il computer, un quaderno, biro, matite, il cellulare, una moleskine, l’agenda
del giornalista e le caramelle che lo aiutavano a mantenere la promessa di non
fumare più.
Roberta seguì
le sue mosse con la coda dell’occhio.
“Tieni” e le
allungò un pacchetto lungo una spanna.
“Per me?” e
cominciò a ipotizzare: un gioiello, comunque qualcosa di prezioso, oro, argento
no, era piuttosto squattrinato. Trucco? Rossetto, profumo, fondotinta. Magari.
“Cos’è?”
“Fai almeno
la fatica di aprirlo” disse Romano.
Allora scartò
il pacchetto con riguardo: era il suo primo regalo, avrebbe conservato il
nastrino dorato, la carta, tutto. Non ci volle molto a capire di che si trattava,
le bastò leggere le prime due lettere della parola Swatch.
“Grazie.”
“Non lo porti
mai, non è che ti fanno schifo.”
Più che
schifo le davano fastidio, ne aveva in camera quattro compreso uno Swatch, ma
preferiva lasciare il polso libero. “E’ figo, grazie” e lo baciò sull’orecchio
destro; il rumore del bacio schioccò nel buio canale. “Mi ha fatto piacere.”
“Ti amo.”
“Anch’io.”
Nessun commento:
Posta un commento