otto
Marco e Beatrice s'erano conosciuti in mezzo al lago di Garda. Fine di luglio,
grigio eternit il cielo, grigio topo le acque, mosse a centrolago, dove le
correnti si davano appuntamento. Non minacciava tempesta, quei temporali che,
soprattutto in estate, sbuffavano rabbia e sputate di grandine proprio dentro
al lago, ma non era il giorno più indicato per la traversata a nuoto
Campione-Malcesine. Beatrice, poco più che una ragazza allora, s'era messa in
barca con un amico, responsabile del Soccorso. "Dai che ci divertiamo a
raccogliere i pesci morti" le aveva detto l'uomo "e se ci va bene,
siamo anche utili." Aveva accettato, un diversivo per un sabato annoiato
di quell'estate gardesana.
A metà lago, quando non c'è convenienza né
a far ritorno né a proseguire, quando molto si è già nuotato ma tanto resta da
nuotare, un gareggiante s'era fermato, aveva alzato il braccio e aveva gridato
“Aiuto!”, ruotando come una lenta trottola sbilenca e mandando occhiate sperse
verso gli altri concorrenti e le barche del soccorso.
"Dai che iniziamo la pesca" aveva
detto a Beatrice l'amico, dando gas e dirigendo il gommone verso il naufrago.
L'avevano tirato a bordo. Sgocciolava, e un po' sgocciolavano anche gli occhi a
quel giovane, mezzo stordito dalla crisi di panico che l'aveva obbligato alla
sosta e alla richiesta di soccorso. Ma s'era ripreso in fretta. "Sono
stato un pivello" aveva commentato, ancora con il fiato rotto dai
rimasugli dell'ansia. "Dovevo fermarmi, non alzare subito il braccio. Mi
riposavo un po'...adesso sono pronto, potrei rituffarmi." Ma lo impediva
il regolamento. E non lo desiderava la ragazza, incuriosita dal nuovo ospite
del natante. Che guardava con invidia i nuotatori, diretti alla spiaggia di
Malcesine. Erano dispersi in uno spazio di lago largo almeno duecento metri. Si
distinguevano bene perché erano costretti a portarsi appresso una boa gialla.
Un gruppo stava puntando decisamente verso sud, altri avevano scelto un
percorso più redditizio, sbracciando diretti al traguardo. Qualcuno nuotava di
lato. "Pensa te!" aveva commentato il concorrente ormai fuori gara.
"Quello sta tornando indietro. Sarà meglio bloccarlo" e aveva
invitato il timoniere ad andargli incontro, per avvisarlo dell'errore.
Giunti alla spiaggia di Malcesine, il
ragazzo aveva ringraziato, salutato e mandato al diavolo la sua pavidità. Ma
intanto Beatrice aveva scoperto di lui nome e cognome (Marco Marchi) e luogo di
residenza (Lazise); era un corridore ciclista, con velleità di professionismo,
dedito saltuariamente al nuoto per diletto e per avventura.
"L'anno prossimo ci riprovo":
queste erano state le ultime parole di Marco.
"Allora, al prossimo anno" aveva
concluso Beatrice. Ma non era passato tutto quel tempo, prima che si
rivedessero.
***
Al terzo giorno di Giro, rientrando in
albergo, Marco pensò seriamente di ritirarsi. Perché quel giorno di maggio era
andato da schifo, e quel suo corpo d'atleta del pedale s'era fatto il suo
peggior nemico. Aveva abrasioni nella metà destra del corpo, ginocchio, coscia,
fianco, avambraccio e gomito. Sentiva bruciore come se l'avessero passato con
un ferro da stiro. Ma le abrasioni erano nel conto di quella vita, che al
momento gli pareva la peggiore possibile. La paura folle di fallire era
concentrata come un pugnale sullo zigomo destro. Le lastre parlavano di
microfrattura, ma il dolore urlava solo bestemmie. Una partenza a Taranto nel
diluvio, acqua e freddo e vento e subito una salita, nemmeno il tempo di
mandare sangue ai muscoli perché qualche imbecille aveva pensato di
approfittarne del tempo guasto, per partire subito. E fra gli imbecilli c'era
Moies Aldape, che non si poteva far scappare via così. Poi la corsa s'era
quietata, seguendo il ritorno di una condizione meteo più accettabile. Però
Marco aveva rischiato di cadere almeno due volte, e mai per sua imperizia.
Passata Barletta, quando al traguardo di
Manfredonia mancavano cinquanta chilometri e l'Adriatico del golfo sonnecchiava
senza voglie, ecco una prima foratura. Il rientro nel gruppo era stato lento,
faticoso, più dispendioso del previsto. Altri venti chilometri di gara, altro
buco nella camera d'aria anteriore. Poi l'infelice decisione di approfittare
della sosta per urinare con comodo, non seduto con le natiche sulla canna del
telaio, in movimento, come d'abitudine. Foratura e sosta che erano coincise con
la partenza della fuga più pericolosa della giornata, a trenta chilometri dal
lungomare di Manfredonia. Era una tappa per velocisti, ma in quella fuga niente
affatto bidone si erano catapultati tutti i suoi potenziali nemici. Si trattava
prima di raggiungere il gruppo, quindi di ricucire lo strappo con i fuggitivi.
S'erano fermati in quattro della Toshibas Bike, che pedalavano come turbine per
agevolare il rientro del capitano. Forse un colpo di vento o la foga di
rientrare o la paura non tanto di perdere la Maglia Rosa (era nel conto) quanto
di lasciare troppi secondi in quella tappa da nulla, Marco aveva toccato la
ruota posteriore di chi lo precedeva. Una strisciata a cinquanta all'ora,
l'asfalto come una formaggiera che gli aveva grattugiato gli indumenti, la
pelle, la carne viva. E quel colpo tremendo del viso, appena attutito dal caschetto.
Non aveva perso i sensi ma l'occhio destro s’era appannato, non riusciva ad
aprire la bocca, che andava sporcandosi del sangue delle ferite.
L'avevano rimesso in sella come si rimette
in piedi un purosangue azzoppato, buono solo per essere abbattuto sul posto. I
colleghi della Toshibas avrebbero pedalato per lui, lo tiravano verso
Manfredonia con ogni incitamento possibile. Marco stava assaporando la
profondità tremenda del soffrire, un dolore inaccettabile anche per un
professionista con ottimo ingaggio. Pensò almeno venti volte di fermarsi. Non
sapeva dove raschiare motivazioni. Gli servì anche rivedere immagini di
situazioni analoghe, occorse a Fausto Coppi e a Richard Virenque, i suoi eroi
di riferimento. Ce la fece, ritrovandosi decimo in classifica, a tre minuti da
Moies Aldape, tre e venti da Beppe Togni, tre e quarantadue da Giacomo
Casavola. Un distacco importante ma non incolmabile. Questa tesi aveva
sostenuto, davanti alle telecamere Rai. Ma ora, dentro i morsi del dolore,
pensando alle molte tappe ancora da affrontare, l'ottimismo era calato insieme
al sole di quel giorno guasto.
8-continua
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