mercoledì 30 novembre 2011
Sono vicino a Giancarlo
Col mio vecchietto
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
novembre
Si giunge ad un’età nella quale, guardandosi indietro o buttando gli occhi in avanti, viene da dire: “Tutto qui?” E vi è un mese votato a dare sostanza a tale domanda: novembre. Un mese che non ha il Natale di dicembre, non è estate, non è primavera, già, è autunno, ma un autunno che, dalle nostre parti, sa di pioggia, di nebbia, di primo freddo che punge. Il “Tutto qui?” vale per ogni mese e stagione, ma calza meglio su novembre. Anche se l’imprevedibilità –nota costante dell’esistere- non risparmia l’undicesimo mese dell’anno. Così l’altro ieri pioveva e pioveva e pioveva, sberle di goccioloni contro le larghe foglie dei platani, schiaffi sull’asfalto, umido e freddo; ieri la nebbia, la poltiglia delle foglie cadute, colori che s’annacquavano sul fondo viscido, e oggi sole, caldo, vento leggero che stacca e regala piroette alle foglie ancora abbracciate ai rami, la luce che attizza la natura non più fradicia, stordita dalla pioggia, risvegliata da un anticipo di primavera. Per fortuna ci sono le stagioni, a dirci che la monotonia è un’invenzione degli uomini.
E il sole di oggi mi ha buttato fuori casa. Ora sto scendendo di buona lena, dopo aver scalato gagliardamente la rizzàda che mena alla Madonna del Monte. Non ho fede. Meglio, non ho certezza di fede, cristiano senza chiesa (direbbe Silone), però quella via di sassi e di cappelle la percorro spesso, non solo perché vietata alle auto.
Ho passato, in caduta libera verso Varese, l’edicola di Oronco con la Madonna del Valtorta, poi la chiesetta di Fogliaro, e ancora la rossa facciata della chiesa (falso romanica) di Sant’Ambrogio. Voglio arrivare in centro, dove abito, senza prendere l’autobus. Voglio esagerare. Una sfacchinata, per dire che il “Tutto qui?” forse è solo probabile. Gustare tutta la luce possibile, anche perché, con l’ora solare, è già buio a metà pomeriggio.
Ora sono nella piazzetta del rione pedemontano, che so dedicata al Milite Ignoto.
Ho una debolezza per gli ignoti soldati, per tutti i militi che sono morti in guerra. Ho il più grande rispetto per quel sacrificio, spesso non voluto, imposto, reso possibile dall’unità di intenti, dalle stesse canzoni, dallo stesso minestrone nella gavetta. Provo disgusto verso chi deride (oggi, pancia piena e ideali vuoti) certe morti in battaglia, affrontate solo perché un ducetto voleva sedersi al tavolo della pace, con mani insanguinate del sangue altrui, purché fosse di italiani, cadaveri da barattare per terra e potere. Ho compassione perché temo che avrei fatto lo stesso, che avrei detto sì, che non avrei capito sino in fondo, che avrei seguito la massa sin dentro l’enorme fossa comune che furono le due guerre mondiali. Ed è questa laica venerazione verso i troppi militi morti che mi blocca il cammino. Per questa ragione, ma anche perché vedo, ai piedi del monumento, una piccola folla. M’accosto, senza entrare nel gruppetto. Noto subito un prete. Non che ce l’abbia coi preti, per carità. Un tempo ero implacabile: mestieranti. Poi mangi pane e debolezza, sale e caducità, quindi capisci, giustifichi, solidarizzi. Questo mi pare un prete canonico, un prete con la faccia da prete, nato per fare il prete. Niente di interessante, dunque. Poche parole e passa il microfono da campo ad un tipo allampanato, anziano ma dritto di schiena; anche qui, non lunghi discorsi, voce un po’ impastata e (capisco che è il politico locale) deposizione di un vaso di crisantemi alla base del monumento.
Ho già notato, facendo con gli occhi la conta dei presenti, un signore elegante, ottant’anni tutti, soprabito di buona fattura e cappello da alpino, con i fregi da ufficiale. Nella successione degli interventi, tocca a lui. Gesti misurati, modi solenni, intuisco che porta dentro il mio stesso rispetto per i caduti, con l’aggiunta che lui ha visto, c’era, avrà perso amici, conoscenti, parenti. Legge un brano, da un libro (mi sfugge il titolo) di Victor Hugo.
Il vento leggero e tiepido scolla le foglie degli ippocastani, che danzano lievi toccando con rassegnazione i sassolini del selciato. Nella piazza e lungo la via Virgilio auto, gente che passa e urla, che canta e chiacchiera. Intorno al monumento un’isola di silenzio, e le parole scandite con enfasi dal vecchio ufficiale degli alpini. Che mi è simpatico, perché è fuori dal tempo ma è uno che ci ha creduto, e ci crede. Saldo ancora sulle gambe, nonostante l’età.
La modesta commemorazione mi regala la voglia di pregare.
Non è finita. Tocca poi ad un ometto originale, senza capelli, naso importante. E’ il solo che conoscerò per nome –o per soprannome- perché più d’uno lo invoglia: “Dai, Pasqualino…Sì, sì, la poesia…vai…”
Parla sciolto, con voce preparata. Senza allungare il brodo, fa capire che leggerà due poesie, in dialetto milanese, di un certo Carletto Pierotti, a suo dire un ottimo poeta; liriche che, precisa, saranno intonate alla circostanza. Il dialetto mi blocca ancora in quella piazzetta, in piedi, fra gente che non conosco. Il dialetto è la voce della mia infanzia; di più, è lo strumento che più mi approssima a mio padre e mia madre, morti non in guerra, ma sempre prima di quanto mi sarei aspettato; benché fare previsioni sulla morte sia segno di profonda incompetenza.
“La prima si intitola ‘I fior del lager’” dice il signor Pasqualino, e attacca: “In del campett dedree a l’infermeria,/sora la sabbia crèss l’erba gramegna,/la ven su a scepp, anca se gh’è l’ombria,/anca se gh’è nissun che la mantegna./”
Pasqualino prende fiato, segno che è finita la prima quartina. Riesco a distinguere le differenza fra il vernacolo milanese e quello che parlavano i miei. La cosa non mi disturba. E l’ometto prosegue: “I campaninn selvadegh se spanteghen/come on ricamm faa da ona man pietosa,/rampeghen sora i legn, poeu se dondinen/al gioeugh del vent, compagn d’on vell de sposa.” Altra paura. Colpi di tosse, voci lontane. Anche il traffico pare voler offrire un po’ di rispetto ai defunti. “Gh’hann minga de profumm. El so color/l’è smont istess de chi riposa sotta:/ghe fann capì ch’hinn minga deperlor,/anca se sora i cros gh’è scritt nagotta./ Hinn fior miss dal Signor cont el so amor./El nòmm el cunta niente: Lù je cognoss./Hinn fior senza profumm, senza color,/sbiavii de foeura…ma i radis hinn ross!”
Il lettore calca la voce sulla chiusura. Qualcuno accenna un applauso. Altri dicono “Bella!” e trovano, da parte mia, piena condivisione.
Non vi descriverò, riportandola per intero, la seconda poesie di Pierotti, sempre di buona fattura (per quanto possa capirne io di poesia). Dirò in sintesi che è la storia commovente di un padre che ogni giorno, di sera, va alla stazione e si ubriaca, in attesa del figlio che, caduto al fronte, non può più tornare da lui. Ma lui non ci crede. Non può crederci. Perché –questo lo dico io, non il Pierotti- nessuno può credere possibile la morte di un figlio. Nessuno può credere che si possa sopravvivere ad un tale lutto. Eppure i figli muoiono anche prima dei padri, e non tutti i padri muoiono a motivo di tanta sofferenza.
Dirò solo, per chiudere, che il mio volo verso il centro, favorito dalla discesa, è stato comunque molto leggero, sospinto dal vento e dal bisogno di pregare, dentro mulinare di foglie e arcobaleni di luce, nella novità e nella gioia, nella gioia frutto della novità. Pressappoco il contrario di quel “Tutto qui?”, da dove eravamo partiti.
martedì 29 novembre 2011
Con tatto
Sergio fra le nuvole
Spazio 1+1
Una nuova casa
La doppia data
lunedì 28 novembre 2011
Speranze olimpiche
Emozionato ed emozionante
domenica 27 novembre 2011
Un ponte d'acqua
L'arte di conservare
Poeta bosino
Sull’esempio di Natale Gorini
Come d’abitudine ho incrociato in via Vico Natale Gorini, sommo vate del nostro dialetto, Re Bosino da molti anni, nonché mio amico e vicino di casa. E’ fra le poche persone con le quali scambio battute in vernacolo. ‘Ciao Natale’, alura’ gli ho detto ‘l’è prunta la puesia?’ E lui, di rimando: ‘Tell sètt che rivi sèmpar a l’ultim!’ Per poesia intendevo quella partecipante al Concorso Poeta Bosino 2011, che Natale ha vinto più e più volte. Il Gorini arriva sempre in ultimo a consegnare il plico, e per ultimo si intendono le ore 19 del 17 dicembre 2011: entro quella data bisognerà portare presso la Libreria Antiquaria Canesi di piazza Giovine Italia 3 le poesie in dialetto, massimo due. Anch’io le consegnerò allo scadere del tempo, come sempre, sperando nel colpo di creatività degli ultimi attimi. Due cose: invito i varesini amanti del dialetto a partecipare a questo ambito riconoscimento per poeti in dialetto. Parlo soprattutto ai miei coetanei, 50-60enni che forse non parlano il dialetto ma lo conoscono e possono metterlo in poesia. Seconda cosa: vi invito a visitare il sito della Famiglia Bosina (www.famigliabosina.it) per conoscere le precise modalità di partecipazione. Infine un ricordo personale, la grandissima emozione che provai nel gennaio del 1995, quando vinsi a sorpresa (e in giovane età) il Poeta Bosino 1994, ricevendo la statuetta d’argento del Pin Girometta dalle mani dell’allora sindaco Raimondo Fassa, del compianto Clemente Maggiora, del caro Sandro Branduardi (che qui saluto), dal regiù Augusto Caravati. Era la mia seconda partecipazione al premio, vinsi con la poesia ‘Rusàri d’un vècc’. Avevo 39 anni, qualcuno si stupì che un ‘giovane’ potesse esternare in rima simili vissuti.
La Provincia di Varese domenica 27 novembre 2011
*con il Pensieri & Parole di oggi, festeggio un anno esatto di collaborazione con il quotidiano 'La Provincia di Varese'.
sabato 26 novembre 2011
Sì, ma che sofferenza!
Ciao, Giancarla
venerdì 25 novembre 2011
Grande Raffaele

Eterna giovinezza

Nemmeno con un fiore
giovedì 24 novembre 2011
Alessia e Beatrice
Medaglia d'argento
183 primini
Ultime raccomandazioni
Immaginazione
mercoledì 23 novembre 2011
Veloci come un'onda
Le prime emozioni di gara
La lotta si rinnova
Il terzetto al galoppo
Pippo & Silvano
Il gruppone
Ragazzi & Cadetti
Ragazze & Cadette
Affezionato

martedì 22 novembre 2011
Il primo, senz'altro
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
NON RINFRESCA NEMMENO QUASSU’
Mio padre mi ha stupito, non gli riusciva così bene da sessant’anni anni, cioè da quando sono nato.
Oggi (come negli ultimi mesi, del resto) l’ho visto seduto sul balcone, immobile, perso nella sua malinconia e gli ho detto: “Dai, vecchietto, che ti porto a respirare aria buona.” Non ha chiesto né dove né come né quando né perché, mi ha seguito senza un gemito, senza un sorriso. Muto e obbediente. Avrei voluto dirgli ‘Non parli?’ ma ho preferito indagare fra le sue rughe e negli occhi, per trovare i rimasugli di passione, una goccia di voglia di vivere. Tutto spento.
Mio padre ora dimostra più della sua età, cammina da vecchio, pensa da vecchio, morirà da vecchio. O forse no. Spero di no. Ma intanto vive e allora ho pensato che salire di quota, cambiare panorama, diminuire di qualche grado la temperatura esterna potesse dargli sollievo. Lui mi segue come un agnello. Sta salendo in auto e dice: “Dove mi porti?”
“Al Campo dei Fiori. Va bene?”
“Come vuoi tu” e il resto lo aggiungo io ‘Tanto io non ho più voglia di niente.’
Ora siamo sul piccolo piazzale detto del Belvedere a mille metri di altezza, seduti su una panchina. Il vedere è bello, c’è tutta la nostra città, i sobborghi, i laghi, la pianura, i colli. Lui tace. Eppure era un gran parlatore, avvocato, costretto per lavoro e aiutato dal carattere a cucire frase su frase, un grande tappeto di balle, con ricami di verità. Guarda, sospira, accavalla la gamba aiutandosi con le mani e dice: “Ahi!”. Il dolore, non continuo, acuisce la depressione. Perché s’era illuso di non sentirlo più ma quello arriva, rivendica la sua presenza.
Cerca i miei occhi e allora io fuggo, guardo il lago, il cielo opaco, respiro l’odore dell’afa, che non rinfresca nemmeno quassù. Non reggo più il suo sguardo rapace, che implora la mia attenzione. Non lo sopporto perché so cosa vuole dirmi con quegli occhi slavati, ed io non saprei che rispondere. Non lo sopporto perché è uno sguardo senza pudore. Mi sveste. E il nudo della mia umanità fa pena. Inventerei le solite parole, la mia impazienza gli consiglierebbe di pazientare, di sopportare, di ringraziare per quello che ha avuto. Ha novantasei anni: cosa pretende? Che un figlio non pensi in questo modo di suo padre? Certo, fa bene a volerlo, protestare, ma questo sono io e quello è lui. Così va il mondo.
I miei occhi scappano e lui torna a guardare nel vuoto, verso un futuro che non esiste. Quello che era da fare è stato fatto. Non resta che attendere. Ma l’attesa della morte è già morte piena.
Se almeno parlasse. Se almeno scrivesse. Per scrivere non ha mai scritto, di parole al vento ne ha soffiate tante, ma di lui che mi ha detto? Della sua paura di morire, ad esempio? Eppure lo so, lo so perché è così per tutti, se siamo uomini; lo so quello che ha in testa, quali pensieri si rincorrono nelle viuzze della sua mente, come vento, come bimbi nel gioco.
Ora guarda in basso, nella direzione della sua infanzia: la sua castellanza, la sua prima casa, i genitori, gli amici, le ragazze, le bevute di grande godimento nelle giornate calde, la bella fame dei giovani. Ricorda e penserà: ‘Dio mio, come è passato in fretta.’ Più a sud la città che lo ha accolto: famiglia, professione, più professione che famiglia, avvocato di grido, come si dice, ma in famiglia gridava poco, sostava per una breve fermata, sedeva in poltrona, mangiava, leggeva il giornale, ci sorrideva come chi saluta perché deve già partire. Ora sbuffa, con timidezza, fingendo di nascondere l’amarezza e insieme pretendendo che io la veda. Che capisca fin dove può arrivare la paura. La delusione. O forse sbuffa perché ha trovato qualche errore commesso in passato, errori di omissione soprattutto, e se ne rammarica, non può più farci nulla, non può recuperare e allora la rabbia è con se stesso, il bilancio non lo soddisfa. Ma nessuno è soddisfatto quando s’avvicina l’ora. Anche cent’anni non bastano ad appagare l’uomo. Anche un’esistenza piena. Io sto qui a ragionare, a ipotizzare, ma che so di lui? Perché mi vuole lasciare nell’ignoranza? Mia mamma è morta, nulla ha lasciato di scritto che potesse regalarmi qualche intimità di mio padre. Sto per urlargli in faccia: “Ma cosa pensi?” e lui si volta, non posso scappare ancora da quegli occhi, li penetro, i nostri sguardi si sfiorano come nuvole, sorride, forse è un grazie per quell’uscita improvvisata. No, niente, torna a guardarsi i piedi, ad accarezzarsi la gamba dolente, a grattarsi come croste le sue pene, ruminandole nell’afa d’agosto. Prende fiato, sbuffa di nuovo; è dimagrito, il suo pallore da malato è impressionante. Per un istante sospetto che potrebbe farsi vincere dalla tentazione del vuoto, mettersi in piedi di scatto e lanciarsi verso la scarpata senza nemmeno urlare di paura, portando il suo silenzio definitivo sin nella tomba. Ho paura e sto per dirgli: ‘Rientriamo, papà, tanto nemmeno qui c’è aria.’
Mi precede. Si volta. Sta piangendo. “Làsum sfugà, fiò” mi dice, sorprendendomi. “Làsum sfugà” e comincia a parlare, parlare, parlare.