NON RINFRESCA NEMMENO QUASSU’
Mio padre mi ha stupito, non gli riusciva così bene da sessant’anni anni, cioè da quando sono nato.
Oggi (come negli ultimi mesi, del resto) l’ho visto seduto sul balcone, immobile, perso nella sua malinconia e gli ho detto: “Dai, vecchietto, che ti porto a respirare aria buona.” Non ha chiesto né dove né come né quando né perché, mi ha seguito senza un gemito, senza un sorriso. Muto e obbediente. Avrei voluto dirgli ‘Non parli?’ ma ho preferito indagare fra le sue rughe e negli occhi, per trovare i rimasugli di passione, una goccia di voglia di vivere. Tutto spento.
Mio padre ora dimostra più della sua età, cammina da vecchio, pensa da vecchio, morirà da vecchio. O forse no. Spero di no. Ma intanto vive e allora ho pensato che salire di quota, cambiare panorama, diminuire di qualche grado la temperatura esterna potesse dargli sollievo. Lui mi segue come un agnello. Sta salendo in auto e dice: “Dove mi porti?”
“Al Campo dei Fiori. Va bene?”
“Come vuoi tu” e il resto lo aggiungo io ‘Tanto io non ho più voglia di niente.’
Ora siamo sul piccolo piazzale detto del Belvedere a mille metri di altezza, seduti su una panchina. Il vedere è bello, c’è tutta la nostra città, i sobborghi, i laghi, la pianura, i colli. Lui tace. Eppure era un gran parlatore, avvocato, costretto per lavoro e aiutato dal carattere a cucire frase su frase, un grande tappeto di balle, con ricami di verità. Guarda, sospira, accavalla la gamba aiutandosi con le mani e dice: “Ahi!”. Il dolore, non continuo, acuisce la depressione. Perché s’era illuso di non sentirlo più ma quello arriva, rivendica la sua presenza.
Cerca i miei occhi e allora io fuggo, guardo il lago, il cielo opaco, respiro l’odore dell’afa, che non rinfresca nemmeno quassù. Non reggo più il suo sguardo rapace, che implora la mia attenzione. Non lo sopporto perché so cosa vuole dirmi con quegli occhi slavati, ed io non saprei che rispondere. Non lo sopporto perché è uno sguardo senza pudore. Mi sveste. E il nudo della mia umanità fa pena. Inventerei le solite parole, la mia impazienza gli consiglierebbe di pazientare, di sopportare, di ringraziare per quello che ha avuto. Ha novantasei anni: cosa pretende? Che un figlio non pensi in questo modo di suo padre? Certo, fa bene a volerlo, protestare, ma questo sono io e quello è lui. Così va il mondo.
I miei occhi scappano e lui torna a guardare nel vuoto, verso un futuro che non esiste. Quello che era da fare è stato fatto. Non resta che attendere. Ma l’attesa della morte è già morte piena.
Se almeno parlasse. Se almeno scrivesse. Per scrivere non ha mai scritto, di parole al vento ne ha soffiate tante, ma di lui che mi ha detto? Della sua paura di morire, ad esempio? Eppure lo so, lo so perché è così per tutti, se siamo uomini; lo so quello che ha in testa, quali pensieri si rincorrono nelle viuzze della sua mente, come vento, come bimbi nel gioco.
Ora guarda in basso, nella direzione della sua infanzia: la sua castellanza, la sua prima casa, i genitori, gli amici, le ragazze, le bevute di grande godimento nelle giornate calde, la bella fame dei giovani. Ricorda e penserà: ‘Dio mio, come è passato in fretta.’ Più a sud la città che lo ha accolto: famiglia, professione, più professione che famiglia, avvocato di grido, come si dice, ma in famiglia gridava poco, sostava per una breve fermata, sedeva in poltrona, mangiava, leggeva il giornale, ci sorrideva come chi saluta perché deve già partire. Ora sbuffa, con timidezza, fingendo di nascondere l’amarezza e insieme pretendendo che io la veda. Che capisca fin dove può arrivare la paura. La delusione. O forse sbuffa perché ha trovato qualche errore commesso in passato, errori di omissione soprattutto, e se ne rammarica, non può più farci nulla, non può recuperare e allora la rabbia è con se stesso, il bilancio non lo soddisfa. Ma nessuno è soddisfatto quando s’avvicina l’ora. Anche cent’anni non bastano ad appagare l’uomo. Anche un’esistenza piena. Io sto qui a ragionare, a ipotizzare, ma che so di lui? Perché mi vuole lasciare nell’ignoranza? Mia mamma è morta, nulla ha lasciato di scritto che potesse regalarmi qualche intimità di mio padre. Sto per urlargli in faccia: “Ma cosa pensi?” e lui si volta, non posso scappare ancora da quegli occhi, li penetro, i nostri sguardi si sfiorano come nuvole, sorride, forse è un grazie per quell’uscita improvvisata. No, niente, torna a guardarsi i piedi, ad accarezzarsi la gamba dolente, a grattarsi come croste le sue pene, ruminandole nell’afa d’agosto. Prende fiato, sbuffa di nuovo; è dimagrito, il suo pallore da malato è impressionante. Per un istante sospetto che potrebbe farsi vincere dalla tentazione del vuoto, mettersi in piedi di scatto e lanciarsi verso la scarpata senza nemmeno urlare di paura, portando il suo silenzio definitivo sin nella tomba. Ho paura e sto per dirgli: ‘Rientriamo, papà, tanto nemmeno qui c’è aria.’
Mi precede. Si volta. Sta piangendo. “Làsum sfugà, fiò” mi dice, sorprendendomi. “Làsum sfugà” e comincia a parlare, parlare, parlare.
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