luglio
Era un pomeriggio di luglio. Uno di quei pomeriggi di vacanza, nei quali si rimpiange il lavoro. Sarà il caldo, che smolla le forze insieme all’asfalto. Sarà la luce, che uniforma in un abbaglio gli oggetti e le persone che danno forma al fuori di noi. E dentro una gran voglia di far niente, che solo il sonno parrebbe soddisfare: né un tuffo in piscina, né ipotesi di vacanze lontane, né il sesso, non il cibo. Il dolce far niente diventa fastidioso come una tavola chiodata da fachiro.
Le aveva pensate tutte, qualcuna anche iniziata, ma s’era dovuto bloccare per inedia. Infine aveva deciso di sbattersi fuori casa, di nuotare nell’afa abbacinante del centro città, sperando probabilmente in un incontro, che avrebbe potuto buttargli una secchiata di acqua gelata su quella faccia inespressiva. Magari un suo amore dimenticato, o qualche altro niente affatto scordato.
S’era messo a vagare senza meta, bighellonando nella più inutile delle passeggiate, ma le poche persone dedite al passeggio come lui parevano del suo stesso umore, perse nella malavoglia, incapaci di reggere l’un l’altra il peso dell’esistere.
Infine, sul tardo pomeriggio, quando però il sole –data la stagione- era ancora alto e fastidioso, coi raggi che parevano alitate pesanti e caldissime, s’era ritrovato dalle parti di un rione di quella città prealpina, zona che aveva ospitato la sua infanzia e la sua adolescenza.
Subito pensò alla chiesa vecchia, perché se la ricordava buia e fresca, persino fredda anche d’estate. Aumentò il passo lungo la stretta via in pavè e giunse alla piazza. Non ci passava da almeno un anno. La facciata era più pulita di come la ricordasse, tanto che la luce aveva trovato una superficie quanto mai adatta alla sua voglia di imporsi. Entrò. Dovette subito stupirsi perché –certo a motivo di un recente restauro- trovò gli interni (pavimento, pareti, soffitto, panche, confessionali, altare, tendaggi, paramenti e tutto il resto) come fossero stati almeno un anno in ammollo. Comunque un po’ d’ombra la si trovava, e soprattutto la temperatura era gradevole. Dapprima si sedette nell’ultima panca. Poi ragionò: come condizione spirituale, quel posto andava bene, peccatore inadatto a procedere oltre. Ma non potendosi giudicare peccatore pentito (caso mai incallito) pensò che sedersi sulle prime panche non avrebbe cambiato nulla nella sua vita. Sul fondo della chiesa o in avanti, era entrato senza desideri di conversione, e così sarebbe uscito.
Non aveva voglia di pregare. Non s’era scordato le orazioni, ma aveva del tutto perso il gusto di recitarle. Pregare no, ma ugualmente si piegò in avanti, accolse la sua testa vuota di tutto dentro le palme delle mani, e si sentì abbracciare da una convincente sonnolenza. Certo si sarebbe addormentato in pochi tremolii di fiamma di candela, se non gli fosse venuto in mente, come una meteora, don Tarcisio Bistoletti. E i ricordi di quel prete della sua infanzia, attor primo in quella chiesa di periferia, lo accarezzarono come le dita di un’amante.
Dunque, si trattava di tornare agli anni Sessanta, quando don Tarcisio, parroco di quella comunità di fedeli, già piuttosto anziano ma incurante delle debolezze del suo corpo, più che coperto ad ogni vento di novità conciliare, faceva il bello, il cattivo e il mediocre tempo in quella porzione di Chiesa Cattolica Romana. Ma i guai cadevano soprattutto sulle gracili spalle del giovane coadiutore, sulle suore, sui fedeli di età matura, che a quel parroco credevano, e che da quel prete si facevano modellare come avrebbe fatto un iroso Michelangelo sul marmo di Carrara: più che altro grandi scalpellate. A loro, ragazzi, spettava la parte migliore, eccezion fatta per l’obbligo della Compieta a metà pomeriggio domenicale, obbligo che spesso scantonavano, scappando quando si trattava di attraversare la via, per recarsi dall’oratorio (delizioso luogo di giochi) alla chiesa. A loro spettava la parte migliore, cioè le grandi risate, accese per la percentuale maggiore dalle parole di don Bistoletti, e per una minima parte dalla compagnia di amici, che per solito rafforza l’ironia, la sorregge e fa da riparo ad eventuali rimbrotti di chi, quell’ironia, provoca.
Intanto si narrava (ma tale diceria aveva più i contorni della leggenda) che sua madre l’avesse partorito in ginocchio, a dire di una donna profondamente religiosa, e di un figlio che ebbe sempre grande venerazione per questa santa mamma. Ancora si diceva che don Tarcisio facesse il bagno vestito, indossando un’apposita tunica, per non venire in contatto diretto con la sua carne. Fatti incredibili che lui non aveva potuto verificare, che comunque giudicava probabili. Ma soprattutto ciò che lui aveva visto e udito tornò dentro quella sua siesta pomeridiana. Quell’insistere di don Tarcisio proprio sulla carne come materia di perdizione, scomodo abito di un corpo che –probabilmente- avrebbe voluto di solo spirito, ma che –non essendo angelo- era costretto a subìre, carne che oltretutto a lui abbondava, data la sua pancia fuori misura.
Guardò l’altare e se lo rivide lì. “E tu, donna, sorella in Cristo, adesso andrai in vacanza, perché arriva l’estate. E ti abbronzerai il nudo corpo.” E, con l’indice puntato verso la malcapitata, ma insieme verso tutte le donne presenti in chiesa e più alla larga verso tutte le femmine del mondo: “Abbrònzati l’anima, alla luce di Cristo Sacramentale!” Questo era un imperativo classico, come ricorrente era la celebre predica del venerdì santo, che si ripeteva sempre uguale, compreso l’epilogo, che giungeva dopo non meno di venti minuti di omelia. “Fratelli, conchiudendo…” e giù a ridere, per quell’atteso svarione, e insieme in trepida attesa per le tre frasi latine: “Vide pendente! Aude loquente! Adora moriente!”
Poi c’erano i pezzi unici, che ancora rammentava. Come quello capitato durante un mese di maggio di molti anni prima.
Don Tarcisio era un cultore del rosario, che consigliava e propagandava in ogni maniera. Quella volta disse: “Il rosario preserva da ogni peccato, il rosario preserva dai pericoli, preserva dalle tentazioni, dai vizi della carne.” Poi un attimo di sospensione, quasi dovesse pesar bene le ultime parole, o forse insospettitosi che la rima avrebbe fatto cilecca. Ma don Tarcisio partì lo stesso: “Il rosario è il preservativo della Madonna!”
A quei ragazzi non sembrò possibile una simile chiusura, parve inverosimile che il prelato non avesse potuto accorgersi di quel clamoroso svarione, ma lo stesso lo tennero per buono, conservandolo come la più riuscita delle barzellette.
In chiesa era solo, quindi non cercò di trattenere le risate, che gli gorgogliavano dentro come una quarantina di anni prima. Si era completamente risvegliato dal torpore di luglio. Poi ebbe un moto di serietà: non era eccessiva quell’ironia alla sua età, se non veneranda almeno più che matura? E non era dissacrante quel suo pensare a don Tarcisio come ad un attore comico? Eppure, se esistevano delle ‘ipsissima verba Christi’, lui avrebbe potuto testimoniare che erano state pronunciate ‘ipsissima verba Bistoletti’.
Ma don Tarcisio era stato anche altro. Così nella memoria vinse l’imparzialità e tornò anche l’ultimo don Bistoletti, quello più conciliante, uomo di Dio che proprio lui vide morire in ospedale, con rantoli e forse un’ultima invocazione a Dio, alla Madre Maria e a sua mamma.
Don Tarcisio aveva sempre disprezzato i beni materiali, e la riprova venne quando, dopo la morte, fu possibile accedere in tutti i locali della sua abitazione. Indossava vesti logore, quando ne possedeva di nuove. Tutto ciò che aveva ricevuto in dono nei suoi molti decenni di parroco (dalle bottiglie di vino agli ombrelli alle borse ai biscotti agli oggetti di gran pregio) stava accumulato in quelle stanze, spesso ancora impacchettato: neppure s’era premurato di aprirli, soffocando quel minimo di curiosità che è anche degli uomini, oltre che –più abbondante- delle donne.
Anche quello era stato il curato Bistoletti, un prete fuori dal tempo, inadatto a modellarsi alle novità di una Chiesa rinnovata, rigido nei suoi principi inossidabili.
Don Tarcisio gli aveva risolto l’epilogo di quel giorno senza sale. Sentì addirittura la voglia di pregare. Lo faceva per porre rimedio agli eccessi dei suoi ricordi? Un chieder perdono al vecchio parroco? O a Dio, per quell’assenza, magari giustificata, ma comunque troppo lunga? Ritrovò vecchie domande e nuovi dubbi. Preferì arrangiarsi con un segno di croce, un pateravegloria, un requiem e poi fuori di nuovo, nel calore soffocante del mondo laico.
il racconto è tratto dal volume 'Una città in cornice' (Macchione editore) di Carlo Meazza e Carlo Zanzi
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