domenica 31 luglio 2011
Improvvisa
Un sabato speciale
La cascina degli amici Fausta e Bruno
Boletus edulis
Fuori dal mondo
sabato 30 luglio 2011
Una buona chiusura
venerdì 29 luglio 2011
Liala

Il vento
Esigenza
giovedì 28 luglio 2011
Lo sguardo
L'animo umano
Illusioni giovanili 3
mercoledì 27 luglio 2011
Emanuele beccato al volo
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
L’omino di Orino
Che fare la pipì si potesse dire pisciare (che tradotto vuol dire pisàa) l’ho scoperto molto presto, da mio nonno Gilberto. Che il modo elegante per dire pisciare fosse orinare l’ho imparato non molto tempo dopo, alla colonia estiva di Milano Marittima. Avevo cinque anni. Me l’ha svelato il sorriso divertito di Luigi, un ragazzetto più vecchio di me, avrà avuto sette, otto anni, che veniva da Vilminore di Scalve. Un bergamasco furbo, che divenne subito mio amico.
“E tu da dove arrivi?” mi aveva chiesto un pomeriggio in spiaggia. Stavamo come prigionieri di un lager sotto una lunga tenda da beduini del deserto. Eravamo appena rientrati in ombra, dopo i venti minuti di cura elioterapica, dieci a pancia in su e dieci a pancia in giù, a friggere come hamburger sopra la sabbia rovente.
“Sono di Orino” era stata la mia risposta. Sincera.
“Orino?”
“Sì, Orino, perché?”
“Ma siete dei piscioni al tuo paese, allora!” era stata la risposta di Luigi. Seguita da un sorriso. Poi mi ha spiegato. Era svelto di idee quel bergamasco. Saggio a suo modo. Concluse: “Secondo me devi cambiare nome al tuo paese. Così non ti prendono in giro.”
“Cioè?”
Ci aveva pensato qualche attimo e poi: “Io farei Omino. Sei di Omino, non di Orino. Tanto nessuno lo sa dov’è Orino, non è mica Milano.”
“Omino? Ma anche omino, è un uomo piccolo…”
“Meglio un uomo piccolo che uno che orina, che piscia sempre, no?”
Mi aveva convinto. Così per tutti quei ragazzini lombardi, finiti a Milano Marittima per un mese di vacanze a basso costo, di giorno in giorno più neri per il sole e lo sporco, io ero di Omino, vicino a Varese. E ogni volta che lo svelavo, se Luigi era al mio fianco se la rideva, mostrando i suoi dentini guasti e la soddisfazione per aver dato a un amico un buon consiglio.
Poi venne la telefonata che mi tradì. Mi avevano suggerito di parlare a bassa voce al telefono, ma chi se l’era ricordato? Così avevo raccontato a mia madre, con voce forte e gioiosa (finalmente la sentivo) soprattutto due cose: la scoperta di Orino e la storia di suor Clementina. A dispetto del nome, più appropriato per una donna minuta e gentile, sorridente e sincera, la suora era di alta statura, robusta, scorbutica, con un naso importante che faceva ombra a tutto il viso ma non ai baffetti, peluria dispettosa che ancor più negava grazia ad un volto da maschio. E per noi ragazzini, quella era suor Baffettilde. Questo raccontai a mia mamma, la salutai e la baciai sul duro della cornetta, che appoggiai sopra l’apposito sostegno, raggiunto in punta di piedi. Svoltai l’angolo del corridoio e chi vidi? La schiena e il velo di suor Baffettilde. Forse mi aveva sentito. E se c’era rimasta male per il soprannome?
Arrivò il giorno della conferma dei miei timori, il tempo della punizione per la mia villania, la pena per la mancanza di rispetto, dovuta a quell’abito sacro. E adesso racconto. Dopo il pranzo ci toccava il riposino pomeridiano, tanto amato dai grandi quanto snobbato dai piccoli. Un’ora nella penombra e nel caldo, a curare mosche e zanzare sognando tuffi in mare e ruminando nostalgie di casa e di abbracci. Il giorno dopo la telefonata rivelatrice, suor Clementina mi chiamò: “Vieni, ti devo parlare. Salirai dopo in camerata” e mi regalò un quarto di sorriso; ma gli occhi sapevano di vento e di tempesta. Salutai Luigi e la seguii. Non ero mai entrato in quel locale. Chiusa la porta, suor Baffettilde mi prese un orecchio, cominciò a stropicciarlo e mi si pose davanti. Arrivavo più o meno all’altezza del suo seno, schiacciato dalle proibizioni della tonaca da suora. Non mandava un odore gradevole. Spinse in su il mio mento, per dire che avrei dovuto guardarla negli occhi. Ma io le guardai i baffi.
“Le bugie non si dicono, lo sai?”
Fui sollevato. C’entrava la storia di Orino-Omino, non il soprannome beffardo.
“Mai” proseguì la suora. “Dalle piccole bugie nascono le menzogne, che sono bugie grosse, da confessare subito.”
Bene, la mia era solo una piccola bugia. Non capii allora perché mi prese di nuovo l’orecchio, sempre lo stesso, quello destro, già rosso per la strizzata di prima.
“Non cambiare il nome del tuo paese. Non devi vergognarti di abitare a Orino. Mai più bugie: promesso?”
Avevo solo cinque anni, ma intuii che lei diceva Orino ma avrebbe voluto dire ‘Mai più suor Baffettilde, capito, piccolo moccioso?’
“Promesso, suora, promesso….mi scusi.”
“Bene, vai a dormire, adesso.”
Allora non compresi perché, dopo quell’incontro, la sera stessa, cominciò a diffondersi la voce che io venivo da Orino e non da Omino, quindi un po’ puzzavo per forza di pipì. Accusai Luigi, che spergiurò di aver mantenuto fede al segreto. Non potevo immaginare che suor Clementina potesse essere così vendicativa. Oggi, alla mia età, poco riesce a stupirmi, e sono ormai certo che fu suor Baffettilde a pungere come l’ago di una siringa quel gruppo di bimbi in vacanza, facendo scorrere il liquido della storia del mio paese che sa di pipì. Un paese al quale, sinceramente, fossi stato fra i padri fondatori, avrei regalato un altro nome. Eppure sono di Orino, che tradotto vuol dire: ‘Epür vegni da Urììn, ca l’è ‘n gran bel paès!
Carlo Zanzi
questo racconto è già stato pubblicato sulla rivista Menta & Rosmarino
martedì 26 luglio 2011
Marchino on ice
La pannocchia
Vola il Memorial
Illusioni giovanili 2
lunedì 25 luglio 2011
Illusioni giovanili 1
Ma le cose non sempre vanno come vorremmo

Brava Madda
Il pianto di Dio
Non è giusto

domenica 24 luglio 2011
Rifugio Al Legn
Il gigante buono
Monte Limidario o Gridone
sabato 23 luglio 2011
Un Bof di solidarietà

Battesimo in barca a vela
Lupo di lago
Randa e fiocco
Incipit
venerdì 22 luglio 2011
La Madona dul Munt
Santa Maddalena
E guardati in faccia
giovedì 21 luglio 2011
Una vita dura, da duri
Appallottolarsi
La mia salita
Per fortuna
mercoledì 20 luglio 2011
I rintocchi della Martinella
La grazia
Passato
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
luglio
Era un pomeriggio di luglio. Uno di quei pomeriggi di vacanza, nei quali si rimpiange il lavoro. Sarà il caldo, che smolla le forze insieme all’asfalto. Sarà la luce, che uniforma in un abbaglio gli oggetti e le persone che danno forma al fuori di noi. E dentro una gran voglia di far niente, che solo il sonno parrebbe soddisfare: né un tuffo in piscina, né ipotesi di vacanze lontane, né il sesso, non il cibo. Il dolce far niente diventa fastidioso come una tavola chiodata da fachiro.
Le aveva pensate tutte, qualcuna anche iniziata, ma s’era dovuto bloccare per inedia. Infine aveva deciso di sbattersi fuori casa, di nuotare nell’afa abbacinante del centro città, sperando probabilmente in un incontro, che avrebbe potuto buttargli una secchiata di acqua gelata su quella faccia inespressiva. Magari un suo amore dimenticato, o qualche altro niente affatto scordato.
S’era messo a vagare senza meta, bighellonando nella più inutile delle passeggiate, ma le poche persone dedite al passeggio come lui parevano del suo stesso umore, perse nella malavoglia, incapaci di reggere l’un l’altra il peso dell’esistere.
Infine, sul tardo pomeriggio, quando però il sole –data la stagione- era ancora alto e fastidioso, coi raggi che parevano alitate pesanti e caldissime, s’era ritrovato dalle parti di un rione di quella città prealpina, zona che aveva ospitato la sua infanzia e la sua adolescenza.
Subito pensò alla chiesa vecchia, perché se la ricordava buia e fresca, persino fredda anche d’estate. Aumentò il passo lungo la stretta via in pavè e giunse alla piazza. Non ci passava da almeno un anno. La facciata era più pulita di come la ricordasse, tanto che la luce aveva trovato una superficie quanto mai adatta alla sua voglia di imporsi. Entrò. Dovette subito stupirsi perché –certo a motivo di un recente restauro- trovò gli interni (pavimento, pareti, soffitto, panche, confessionali, altare, tendaggi, paramenti e tutto il resto) come fossero stati almeno un anno in ammollo. Comunque un po’ d’ombra la si trovava, e soprattutto la temperatura era gradevole. Dapprima si sedette nell’ultima panca. Poi ragionò: come condizione spirituale, quel posto andava bene, peccatore inadatto a procedere oltre. Ma non potendosi giudicare peccatore pentito (caso mai incallito) pensò che sedersi sulle prime panche non avrebbe cambiato nulla nella sua vita. Sul fondo della chiesa o in avanti, era entrato senza desideri di conversione, e così sarebbe uscito.
Non aveva voglia di pregare. Non s’era scordato le orazioni, ma aveva del tutto perso il gusto di recitarle. Pregare no, ma ugualmente si piegò in avanti, accolse la sua testa vuota di tutto dentro le palme delle mani, e si sentì abbracciare da una convincente sonnolenza. Certo si sarebbe addormentato in pochi tremolii di fiamma di candela, se non gli fosse venuto in mente, come una meteora, don Tarcisio Bistoletti. E i ricordi di quel prete della sua infanzia, attor primo in quella chiesa di periferia, lo accarezzarono come le dita di un’amante.
Dunque, si trattava di tornare agli anni Sessanta, quando don Tarcisio, parroco di quella comunità di fedeli, già piuttosto anziano ma incurante delle debolezze del suo corpo, più che coperto ad ogni vento di novità conciliare, faceva il bello, il cattivo e il mediocre tempo in quella porzione di Chiesa Cattolica Romana. Ma i guai cadevano soprattutto sulle gracili spalle del giovane coadiutore, sulle suore, sui fedeli di età matura, che a quel parroco credevano, e che da quel prete si facevano modellare come avrebbe fatto un iroso Michelangelo sul marmo di Carrara: più che altro grandi scalpellate. A loro, ragazzi, spettava la parte migliore, eccezion fatta per l’obbligo della Compieta a metà pomeriggio domenicale, obbligo che spesso scantonavano, scappando quando si trattava di attraversare la via, per recarsi dall’oratorio (delizioso luogo di giochi) alla chiesa. A loro spettava la parte migliore, cioè le grandi risate, accese per la percentuale maggiore dalle parole di don Bistoletti, e per una minima parte dalla compagnia di amici, che per solito rafforza l’ironia, la sorregge e fa da riparo ad eventuali rimbrotti di chi, quell’ironia, provoca.
Intanto si narrava (ma tale diceria aveva più i contorni della leggenda) che sua madre l’avesse partorito in ginocchio, a dire di una donna profondamente religiosa, e di un figlio che ebbe sempre grande venerazione per questa santa mamma. Ancora si diceva che don Tarcisio facesse il bagno vestito, indossando un’apposita tunica, per non venire in contatto diretto con la sua carne. Fatti incredibili che lui non aveva potuto verificare, che comunque giudicava probabili. Ma soprattutto ciò che lui aveva visto e udito tornò dentro quella sua siesta pomeridiana. Quell’insistere di don Tarcisio proprio sulla carne come materia di perdizione, scomodo abito di un corpo che –probabilmente- avrebbe voluto di solo spirito, ma che –non essendo angelo- era costretto a subìre, carne che oltretutto a lui abbondava, data la sua pancia fuori misura.
Guardò l’altare e se lo rivide lì. “E tu, donna, sorella in Cristo, adesso andrai in vacanza, perché arriva l’estate. E ti abbronzerai il nudo corpo.” E, con l’indice puntato verso la malcapitata, ma insieme verso tutte le donne presenti in chiesa e più alla larga verso tutte le femmine del mondo: “Abbrònzati l’anima, alla luce di Cristo Sacramentale!” Questo era un imperativo classico, come ricorrente era la celebre predica del venerdì santo, che si ripeteva sempre uguale, compreso l’epilogo, che giungeva dopo non meno di venti minuti di omelia. “Fratelli, conchiudendo…” e giù a ridere, per quell’atteso svarione, e insieme in trepida attesa per le tre frasi latine: “Vide pendente! Aude loquente! Adora moriente!”
Poi c’erano i pezzi unici, che ancora rammentava. Come quello capitato durante un mese di maggio di molti anni prima.
Don Tarcisio era un cultore del rosario, che consigliava e propagandava in ogni maniera. Quella volta disse: “Il rosario preserva da ogni peccato, il rosario preserva dai pericoli, preserva dalle tentazioni, dai vizi della carne.” Poi un attimo di sospensione, quasi dovesse pesar bene le ultime parole, o forse insospettitosi che la rima avrebbe fatto cilecca. Ma don Tarcisio partì lo stesso: “Il rosario è il preservativo della Madonna!”
A quei ragazzi non sembrò possibile una simile chiusura, parve inverosimile che il prelato non avesse potuto accorgersi di quel clamoroso svarione, ma lo stesso lo tennero per buono, conservandolo come la più riuscita delle barzellette.
In chiesa era solo, quindi non cercò di trattenere le risate, che gli gorgogliavano dentro come una quarantina di anni prima. Si era completamente risvegliato dal torpore di luglio. Poi ebbe un moto di serietà: non era eccessiva quell’ironia alla sua età, se non veneranda almeno più che matura? E non era dissacrante quel suo pensare a don Tarcisio come ad un attore comico? Eppure, se esistevano delle ‘ipsissima verba Christi’, lui avrebbe potuto testimoniare che erano state pronunciate ‘ipsissima verba Bistoletti’.
Ma don Tarcisio era stato anche altro. Così nella memoria vinse l’imparzialità e tornò anche l’ultimo don Bistoletti, quello più conciliante, uomo di Dio che proprio lui vide morire in ospedale, con rantoli e forse un’ultima invocazione a Dio, alla Madre Maria e a sua mamma.
Don Tarcisio aveva sempre disprezzato i beni materiali, e la riprova venne quando, dopo la morte, fu possibile accedere in tutti i locali della sua abitazione. Indossava vesti logore, quando ne possedeva di nuove. Tutto ciò che aveva ricevuto in dono nei suoi molti decenni di parroco (dalle bottiglie di vino agli ombrelli alle borse ai biscotti agli oggetti di gran pregio) stava accumulato in quelle stanze, spesso ancora impacchettato: neppure s’era premurato di aprirli, soffocando quel minimo di curiosità che è anche degli uomini, oltre che –più abbondante- delle donne.
Anche quello era stato il curato Bistoletti, un prete fuori dal tempo, inadatto a modellarsi alle novità di una Chiesa rinnovata, rigido nei suoi principi inossidabili.
Don Tarcisio gli aveva risolto l’epilogo di quel giorno senza sale. Sentì addirittura la voglia di pregare. Lo faceva per porre rimedio agli eccessi dei suoi ricordi? Un chieder perdono al vecchio parroco? O a Dio, per quell’assenza, magari giustificata, ma comunque troppo lunga? Ritrovò vecchie domande e nuovi dubbi. Preferì arrangiarsi con un segno di croce, un pateravegloria, un requiem e poi fuori di nuovo, nel calore soffocante del mondo laico.
il racconto è tratto dal volume 'Una città in cornice' (Macchione editore) di Carlo Meazza e Carlo Zanzi