venerdì 4 gennaio 2013

Cicale al carbonio 18



                                         diciotto


Beatrice sedeva sul divano. Un divano che aveva un odore di casa estranea. Prese il telecomando. Accese. Rai Tre. Giro d’Italia.
Lui aveva riposto i calici sopra un tavolino e s’era seduto al suo fianco. Era sudato, un sorriso imbarazzato.
Una sola cosa si augurò: che lui non chiedesse scusa.

***  

“E per fortuna che era Togni il più spericolato in discesa.”
“Se tanto mi dà tanto, oggi Marchi si sta rivelando un campione anche quando la velocità si impenna.”
“Settanta all’ora, signori. Giù dal passo del Mortirolo, verso il fondo della Val Camonica, Marchi rischia il tutto per tutto.”
“Ma la Maglia Rosa non molla. Togni perde qualche secondo ma è come se volesse calcolare i rischi, tenere Marchi sotto tiro, illuderlo, farlo sfogare. O farlo rischiare troppo.”
“Anche perché occorre ricordare ai nostri telespettatori che il traguardo è ancora lontano, ci saranno altri chilometri in salita, sino al passo dell’Aprica.”
“Salita non impossibile ma al termine di una tappa infernale, caldo asfissiante e la Cima Coppi, su al Passo dello Stelvio.”
“Dove osano le aquile avrebbe commentato il grande Adriano De Zan, il maestro di tutti noi telecronisti che amiamo il ciclismo.”

***   

Beatrice guardava le immagini e non provava rimorso. Indifferenza, e rabbia per un’attesa incompiuta.
Aveva già tradito.
Nel teleschermo, più che i corridori in discesa dal Mortirolo studiava in trasparenza il suo volto, una macchia scialba. Suo marito era lontano, l’assente nei momenti necessari.
Lui taceva.
Lei cominciò a riabbottonarsi la camicia ma non ci riusciva. Tremava, le dispiaceva tornare indietro, era ferita e confusa, persa in un dormiveglia dal quale non voleva svegliarsi.

*** 

“Dunque, aggiorniamo i distacchi. Marco Marchi, capitano della Toshibas Bike, ha raggiunto proprio ora il fondovalle.”
“E allora facciamo partire il cronometro, vediamo il vantaggio.”
“Ho l’impressione che la Maglia Rosa abbia perso ancora, più dei trenta secondi di due chilometri fa.”
“Impressione corretta….venti secondi e ancora non si vedono….”
“Incredibile! Chi l’avrebbe detto, Marchi che recupera in discesa, sul terreno favorevole al bergamasco.”
“Eccoli, il gruppetto che comprende la Maglia Rosa arriva e sono quarantacinque, sì, quarantacinque i secondi di vantaggio del veneto.”
“La domanda è presto fatta: Li manterrà? Li incrementerà? Li perderà?”
“Domanda da un milione di euro.”
“Staremo a vedere.”

*** 

Lui la distese sul divano, lentamente, e lei si lasciò scivolare sotto di lui. Le prese il telecomando, spense la tele e lei disse: “No. Lascia acceso.”
La spogliò e si spogliò.
Lei gli strinse la testa e guidò i suoi baci dove desiderava. Alzò una gamba sullo schienale, l’altra pendeva a terra, il tallone sfiorava un tappeto a pelo lungo.
La spinse più in su, le porse un cuscino che sistemò sotto la nuca.
Ad occhi chiusi lei si voltò verso la tele, allungò il braccio a sfiorare il tappeto.

*** 

“Pochi chilometri di pianura è già il vantaggio di Marchi s’è ridotto a venti secondi.”
“Inevitabile…lotta ìmpari….uno contro dieci.”
“Bisognerà aspettare le pendenze dell’Aprica.”
“E ho l’impressione che il veronese giù dal Mortirolo abbia speso di più, molto più di Beppe Togni, o no?”
“Difficile dirlo. Comunque vada, questo è spettacolo vero. Un Giro d’Italia in bilico sino all’ultima tappa, una lotta a due, a tre che non si risolve, che tiene incollato per ore ai televisori il nostro pubblico.”
“Senza contare i tifosi lungo il percorso. Impressionante. Camper, roulotte, tende, gente a piedi e in bicicletta, pur di esserci.”
“Anche se qui dobbiamo rinnovare l’appello più volte lanciato dai nostri microfoni: non spingete i corridori. Ormai resta la tappa di domani ma ci saranno altre salite, e saranno quelle che decreteranno la classifica finale. Sul Cuvignone e sul Campo dei Fiori, lo ripetiamo sino alla noia: non spingete, fate solo il male dei vostri campioni.”   

*** 

Tastando il pelo del tappeto trovò la scatola che cercava, schiacciò i tasti a caso, il volume si alzò, s’abbassò, cambiarono i canali. Il video s’annerì.
Lui le baciava la fronte, lei cercò le sue labbra.
Lui si fermò. Lei trattenne il respiro; gli accarezzò la schiena, le dita sudate, la schiena sudata, scese e guidò con le mani la sua lenta ripresa. Movimenti circolari, in crescendo, veloci e profondi, come il respiro.
“Aspetta” disse lui. L’accompagnò. Lei si lasciò cadere sul tappeto. Chiuse gli occhi. Il pelo lungo era morbido, allontanò una scarpa che le feriva la schiena. Attese coprendosi i seni con le braccia conserte.
“Vieni”
Sentì le mani di lui cercare le sue, invitarla a salire sopra il divano. Aprì gli occhi. Sedeva con le gambe distese, la aiutava a sedersi sopra di lui, che ora risaliva piegando le gambe e lei spingeva con le ginocchia contro i cuscini.
Lui allargò le braccia, la testa abbandonata nel vuoto, chiusi i suoi occhi colore del cielo.
Lei si ancorò al collo. Il tempo era assente.
“Non ora.” Lui s’alzò e la prese per mano. Andò verso una porta accostata, l’aprì con la spalla, pochi passi ed un letto. Le lenzuola erano accartocciate, odore di chiuso, penombra. Si sdraiarono. Le sue gambe aperte pendevano dalla sponda del letto.
“Saliamo” gli disse, ma lui non capiva. Veloce e violento. “Saliamo” e lui si quietò ma era appena una sosta. “Saliamo, saliamo…” ma la richiesta si spense, come si spegne il buio quando il fuoco s’accende.
      
***

Marco aveva rischiato tutto in discesa. Un paio di frenate brusche, uno scodinzolo della ruota posteriore, s’era visto a mangiare l’asfalto o come un sasso lanciato nel burrone ma pigiava sulle pedivelle come un ossesso. Contava solo la vittoria: era il primo comandamento del suo mestiere. In pianura il gruppetto degli inseguitori gli avevano rosicchiato quasi tutto il vantaggio. A Edolo era quasi certo di mollare, impossibile sperare di mantenere anche dieci secondi di vantaggio. Piazzata al centro di una rotonda, una ragazza gli aveva urlato in faccia tutta la sua ammirazione e così aveva deciso di andare avanti. E se lo riprendevano, non avrebbe mai vinto in volata. Poi era ritornata la salita, pendenza minima ma costante verso il passo dell’Aprica. Infine era arrivato il triangolo rosso dell’ultimo chilometro, che penzolava sotto una volta di plastica gonfiata. Non doveva voltarsi. Li aveva dietro, pochi metri, lo braccavano ma se si fosse girato, se avesse visto il luccichio di quelle bici nel sole, avrebbe perso. Doveva solo pedalare. Un gesto facile, alla portata di un bimbo. E pedalava con la bocca aperta, con le mani che strozzavano il collo del manubrio. Avrebbe bevuto tutta l’acqua dell’universo. Era cotto dal sole e dalla fatica. Ma pedalava e pedalò immaginandosi ombre di sorpassi che non arrivavano e non arrivarono mai.

***      

Beatrice era sotto la doccia. Si lavava e si accarezzava. Tanta acqua nei capelli, ruscelli giù a seguire le onde del suo corpo. Non si sentiva ferita. Sopra di lei scivolava solo acqua, non sangue. Vide la sua immagine oltre la porta di vetro smerigliato. Lui bussò. Lei aprì.
“Posso?”
“Vieni.”
La sua schiena sentì il freddo della parete di piastrelle bianche, con disegni di fiori: per lasciargli il posto sotto quella pioggia tiepida.
“No no…insieme.”
Si avvicinò, rischiò di cadere sopra chiazze di bagnoschiuma, lui la trattenne. L’acqua pioveva nel mezzo, rimbalzava. Baci di acqua e di shampo. E quel piede, infilato fra i suoi, che spingeva a destra e a sinistra. Era facile lasciarsi guidare nel gesto dal bagnoschiuma, scivolare nelle piccole bolle colorate sul fondo della doccia.

                                                                                     18-continua 

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