Due
10 gennaio 2005
Giulio fermò
l’auto. Alla sua sinistra i posteggi erano tutti liberi. Scese, guardò ancora
l’orologio. Era presto. Mosse pochi passi in salita, si appoggiò alla ringhiera
e guardò verso il basso. Sotto di lui la città accendeva le prime luci. Appena
qualche chilometro in salita e trovava Varese ai suoi piedi. Anche da lassù la
città si muoveva: vedeva le luci delle auto lungo i viali, pensava alla gente
per strada e nelle case, negli uffici e nei negozi. Il paesaggio sottostante
brulicava. Ma il lago, fra le case e la pianura, pareva di ghiaccio. Immobile.
Una lastra. Uno specchio dove il sole ancora s’ammirava, prima di addormentarsi
sotto la coperta delle Alpi.
***
Giulio di nuovo
guardò l’ora. Restava qualche minuto. Erano le sedici e venti del dieci gennaio
duemilacinque. Un lunedì. Si voltò a destra, il sole era tramontato dietro le
montagne innevate. Il Monviso, la vetta più aguzza di fronte a lui, sembrava un
diamante. Il fuoco a occidente divenne oro, i laghi assorbirono la tinta
preziosa di quel tramonto invernale.
Respirò tant’aria;
era fredda ma non gli procurava tosse, solo un diffuso senso di benessere.
Immaginò tutti i respiri di tutti gli uomini che, come lui, per farsi coraggio,
s’ubriacavano d’ossigeno.
Ormai era l’ora.
***
Risalì sull’auto.
Tre tornanti e si fermò di nuovo, davanti alla villa. Suonò il campanello, come
avevano concordato.
“Giulio.”
“Vieni” e il
cancello più piccolo, ricavato nel grande cancello di ferro lavorato, s’aprì.
I cani erano stati
legati. Uno abbaiava, un rumore soffocato, un guaito.
Sarebbero rimasti
soli, per molte ore. Si lasciò alle spalle il cancello e i colori del tramonto,
spenti ormai dal nero della notte. Guardò verso l’alto, se brillavano stelle e
se, nella mansarda della villa, la luce fosse accesa. Sì.
Prima di vedere
Lucia, nei pochi passi che ancora li teneva distanti, già se la sentiva
addosso. Minuta, fragile.
Non venne, Lucia,
ad aprirgli. La porta della villa era accostata.
Vide l’uscio
socchiuso, spinse con calma, sentì “Entra e chiudi”, entrò e la trovò seduta
sul divano.
***
“Vieni...siediti”.
Lucia s’era alzata, gli era venuta incontro, gli aveva preso il cappotto,
l’aveva sfiorato, era andata a chiudere a chiave la porta. Poi s’erano trovati
seduti sul divano, vicini.
L’ansia di Giulio
era scritta nelle mani, che scivolavano in su e in giù, stirando i pantaloni
all’altezza del ginocchio. Lei pareva più tranquilla: cominciò, accarezzandogli
i capelli, invitandolo a sdraiarsi sul divano, se quello desiderava. Lui si
distese, appoggiò la nuca sulle sue cosce nude.
Guardava, Giulio,
verso l’alto: il soffitto, il suo mento, i suoi occhi, il lampadario; chiudeva
gli occhi, sentiva il piacere di quelle sue lunghe carezze, delicate, gentili.
Sentiva anche, in lui, molta irrequietezza. Doveva parlarle, per distrarsi.
Non gli usciva
nessuna frase capace di aggiungere qualcosa alle carezze di Lucia.
La donna scese,
con la mano, dai capelli, alla fronte, con l’indice seguì il profilo del naso,
un naso infantile, la bocca, poi la mano non toccava il mento ma deviava alle
guance, a destra e a sinistra, poi di nuovo la bocca, le labbra, sfiorate.
Giulio fremeva. La
mano di lei scese di nuovo, al mento. Sostò al collo, Giulio la fermò, la
scansò. Temeva che Lucia potesse fare considerazioni su quel doppio mento.
“Che c’è...perché?”
Giulio non
rispose. Era lì per quelle carezze. Lasciò fare a lei. Che giunse al petto.
Infilò la piccola mano sotto la camicia.
Cominciò a
sbottonarla.
***
Lucia s’alzò.
Accese lo stereo: Rimmel di Francesco De Gregori. Tornando da lui si
tolse il vestito, un completo verde con fiori e colori. La ritrovò vicina. Solo
la sottoveste, leggera; in trasparenza il suo corpo. Si sedette, Lucia,
accovacciata. Forse lo attendeva. Toccava a lui, ora.
Per lui non era
facile seguire il suo ritmo, la sua voglia di lentezza, di profondità. Non era
il tempo che difettava a quell’incontro. Avrebbero avuto molte ore. Quel
piacere le richiedeva. Lucia lo desiderava. Nessuno dei due voleva pensare al
rischio di quella scelta.
Giulio si sfilò la
camicia.
“No.” Lucia s’alzò.
Fece un cenno a lui di imitarla.
Erano in piedi,
uno di fronte all’altra. Lucia, per entrare nei suoi occhi, doveva salire sulle
punte dei piedi, allungarsi ancora.
Lui pensò che, forse, voleva ballare. La musica faceva la
parte della sua inadeguatezza.
“Vuoi ballare?” le
chiese, dopo una lunga pausa.
Lucia sorrise. Era
un altro no. Lo prese per mano. Capì che lo avrebbe condotto in mansarda, due
rampe di scale, una piccola camera, tanto legno come in una baita. Pochi i
mobili, lassù. Cuscini, tappeti, profumo di resine, due comodini, due lampade,
un grande specchio, altro non ricordava. E il letto, un grande letto, una
spanna dal pavimento di parquet.
Un letto dove
Lucia si perdeva.
E mentre saliva le
scale, facendosi guidare da quella donna con due seni da adolescente, Giulio
sentiva la musica che s’allontanava e Lucia che s’avvicinava e niente e nessuno
avrebbero potuto arrestare quel cammino.
Quando mancavano
pochi gradini, Giulio lasciò la sua mano, la presa in braccio. Era un cuscino
di piume.
Insieme, un piede
lui un piede lei, aprirono la porta della mansarda. Come due sposi.
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