SI CHIAMAVA GLORIA MEANY
“Dal Cantico dei Cantici” disse
il reverendo Duddley Wiggins. Avrà avuto non meno di settant’anni. Stavo in piedi vicino agli sposi, oltre i testimoni:
gli potevo contare le rughe. Mi colpì la sua espressione da ragazzo. C’era
complicità fra lui, la sposa e lo sposo.
“Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme” e lo sguardo del
prete accarezzò la fantastica ragazza che gli stava di fronte, in piedi,
emozionata. L’abito bianco metteva in risalto la sua pelle abbronzata. Eravamo
all’aperto, sotto un cielo che faticava a rannuvolarsi. Ma una nuvola arrivò
proprio allora, il sole scappò dal viso della sposa, che parve rattristarsi.
“Bruna come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma” continuò
il reverendo Wiggins. “Non state a
guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole. Dimmi, o amore
dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge?”
La ragazza che andava sposa ad un
ricco proprietario terriero, una mia cugina di secondo grado che amavo
segretamente ma che aveva quindici anni più di me, si voltò verso lo sposo,
come se davvero fosse lei a rivolgergli la domanda: “Dove vai a pascolare il
gregge?” Guardando lui si voltò anche
verso di me e per un istante Gloria, si, il suo nome era Gloria Meany, parve
regalarmi una porzione dei suoi occhi stupendi. Ma erano solo per lui, lo avrei
capito nel corso degli anni. Nessun interesse per me.
Il reverendo continuò, guardando
ora lo sposo come volesse raccomandarsi, trattala con ogni riguardo, è un
angelo; era anche il mio augurio, quella donna era davvero speciale.
“Alla cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia.”
Il prete leggeva con lentezza, forse attendeva che tornasse il sole, pennellando
d’oro gli amanti pronti alla promessa. “Belle sono le tue guance fra i pendenti, il
tuo collo fra i vezzi di perle. Faremo per te pendenti d’oro con grani
d’argento.”
Lo sposo la guardò; io ero in piedi
alla sua sinistra, non potevo leggere le parole del suo sguardo ma mi bastò
vedere lei, quel sorriso in risposta al suo. Si amavano davvero. Per sempre.
Tagliandomi fuori definitivamente.
Il reverendo Wiggins ultimò la
lettura dal Cantico dei Cantici. Quindi gli sposi si sedettero e lui si impegnò
in un sermone improvvisato: nessun foglio scritto. Ero distratto, pensavo che
ci sarebbe stata un giorno, anche per me, una Gloria Meany. Notai però un
particolare: quando il reverendo Wiggins disse “Il vostro amore sarà prezioso e
indistruttibile come un diamante” e, non so se in conseguenza a questa affermazione
potente, gli sposi si presero la mano, arrivò il sole, un sole tiepido, che non
infastidiva, che accendeva i colori, i capelli bianchissimi del prete, l’abito
candido di Gloria. Ricordo anche che zia Hester, seduta dietro a me, disse a
zia Martha: “E’ un buon segno.” E Martha, debole d’udito: “Che hai detto?” “Il
sole, ho detto che è arrivato il sole. E’ segno che è un matrimonio ben fatto.”
Ma aveva alzato talmente la voce che il reverendo aveva interrotto il sermone e
l’aveva ripresa con un sorriso benevolo. Quel prete anglicano mi stava
simpatico e quando morì, non molti anni dopo, portai il lutto senza fingere
false tristezze. Ma Gloria l’amavo davvero e suo marito, John Chickering, l’ho
sempre considerato –è ridicolo, lo ammetto- come un ladro gentile, che ti
sottrae un bene e tu devi ringraziarlo. Fargli addirittura un regalo.
Per fortuna al regalo degli sposi
ci pensarono i miei genitori.
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