IL PASSAGGIO
Il pelouche dell’infanzia cerca
di liberarsi dalla morsa nervosa delle dita di lei, la sua padrona, che lo
maltratta: piccolo candido pelouche dal nastrino rosso al collo, morbido e
impotente oggi, che lei ha voluto con sé, davanti al suo primo esame di
competenza scolastica. Annega, riemerge, gli schiaccia la pancia e lui gonfia
il torace, gli strizza il collo, le piccole zampe d’orsetto che accoglie con pazienza tutta quell’ansia
da prestazione. Lo accarezza ma –inganno- un attimo appresso è soffocato,
manomesso, solleticato.
Lei è una gran bella ragazza
oggi, sulla via della completezza: onde lunghe di lisci capelli s’adagiano
sugli scogli di spalle larghe, ha scelto un vestito da sportiva qual è, di alta
statura, basse colline di seni primaverili, il dolce profilo del naso e due
mani nervose. Le lunghe dita tastano la morbidezza del vecchio amico
d’infanzia, soggiogato al suo potere di donna costretta a soffrire per dire
parole imparate a memoria. Vorrebbe essere altrove, aver già scontato la pena,
vorrebbe tacere e baciare il pelouche ma non è ancora il tempo: ora gli serve,
antico regalo tornato utile dopo anni d’oblio. Stava uscendo di casa senza di
lui, una pesante cartella di libri e quaderni, il desiderio di scappare lontano
e un respiro d’affanno. L’ha visto, nell’ombra, fra polvere e bambole molli,
l’ha accolto nella sua mano. Cascate di ricordi piacevoli, speranza che avrebbe
ottenuto conforto dall’animaletto di pezza.
Siamo quasi alla fine ma lei non
molla la presa, lo tormenta, lo molesta, lo stressa con il suo stress.
Ora abbassa le mani sotto la
cattedra, le ginocchia pressano dita e pelouche, lei guarda i suoi giudici, no
lui no, quel professore no, quella domanda no, non sa nulla, pocopoco, quasi
niente. Vorrebbe pregare ma accartoccia l’orsetto, si sfila il nastrino dal
collo, cade a terra con il tintinnio della campanella. Un trillo che non sfugge
alla commissione d’esame. Ma fingono i prof. Sorride solo lei, la sua amata,
che capisce ed è pronta ad un’altra domanda, per rincuorarla. Sa che la saprà.
Ma l’altro incalza, gliel’ha giurata, all’esame all’esame vedrai, forse è solo
la rabbia di essere vecchio, uno che ha dimenticato la morbidezza della
gioventù.
“Bene, può andare?” chiede un
docente.
“Per me sì” risponde il più
innocuo, distante nel suo mondo.
Un susseguirsi di sì, va bene,
sorrisi e “Un momento”. Tutto combacia, gliel’aveva promesso, ci rivedremo
all’esame. “Una sola domanda, mi
piacerebbe che tu parlassi….”
Non la sa. E’ andata male. Ci
sarebbe un pianto di rabbia sul limitare del suo sorriso falso, e fra le dita
l’animaletto che geme, che soffre, che incassa. Che non regge più: la testa
prende commiato dal resto del corpo.
Si aprono le sue mani, unite per
tenerlo. Si scollano ed è un altro dolore, inatteso e profondo, più
insopportabile di quella domanda dell’ultimo istante.
“Allora, signorina…”
Si solleva la chiusa del pianto,
singhiozza senza vergogna per quell’attestato di debolezza.
“Non fare così.” Il professore
tiranno è pentito, è il primo ad accorrere, cerca di rimediare con fare
paterno. “Se non la sai, amici come prima. Non è importante. Sei andata bene.
Non piangere.”
“Non piango…”
“Non piangi?” domanda la sua
professoressa del cuore.
“No, non piango per…”
“Per..?” ed è tutta un’attesa
curiosa.
“ Non è la domanda…”
“Allora?”
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