QUASI QUASI, MI PAR DI MORIRE
Probabilmente sto morendo. E non è così tragico. Sono qui a terra, sul culmine del passo del Cuvignone, sotto la pioggia, forse ho rotto la clavicola, sangue al gomito destro ma mi preoccupa il petto in fiamme, una lama nel cuore, brividi, senso di vomito. Prima di cadere ho fermato il tempo sul cronometro, ora cerco di vedere, mi pare ventinove minuti e qualcosa, o forse ventotto ma la vista s’annebbia. Sotto i trenta di sicuro.
Sto morendo, solo come una lucertola sopra un grande muro assolato, ma vorrei gridare al mondo qualcosa, con l‘ultimo fiato. Che almeno si sappia ciò che sta dietro alla frase: ‘Un uomo è morto d’infarto, salendo in bici al passo del Cuvignone, sopra Cittiglio, salita molto amata dai ciclisti varesini.” Che si sappia che la mia morte, come tutte, ha un retroscena epico, ha molto da raccontare.
Non credo di farcela a dirvi del mio ultimo spicchio di vita, sto male davvero, ora tremo e ho il terrore dentro. Vorrei solo piangere, morire subito. Vorrei passasse qualcuno e raccogliesse questa miseria che sono, mentre stamani mi sentivo un dio. Ma non mi pento. No, mi pento eccome, ora che il cuore pulsa verso la meta, cavallo zoppo. Da abbattere.
Oggi è il quattro giugno del millenovecentonovantacinque. Stamani mi sono alzato con la stessa furibonda gioia del pomeriggio di trent’anni fa, era il trenta luglio millenovecentosessantasei, avevo dieci anni, si era appena conclusa la finale di Coppa Rimet fra Inghilterra e Germania, io tifavo Germania e naturalmente aveva vinto l’Inghilterra quattro a due, avrei dovuto intristirmi e invece, preso da formicolio alle gambe, mi ero messo a correre sul campo di calcio (ero all’oratorio), pallone ai piedi e nuvola di terra; immaginavo avversari che si materializzavano nell’accecante luce di quell’estate. E urlavo ai miei piedi: “Bobby Charlton, Bobby Charlton –e sentivo la folla berciante- Bobby Charlton, tiro, gol!!!!!”
Stamani lo stesso, eppure non manca molto ai quaranta. Ieri ho assistito all’impresa di Claudio Chiappucci, solitario eroe del Cuvignone sotto il diluvio, e sotto i trenta minuti, entrambe le volte, per salire da Cittiglio al passo. Meno di mezz’ora sotto il nubifragio.
Così stamani, alle sette, mi sono detto: “Vai! Lui, il Diablo, arrivava da un Giro d’Italia, arrivava da Pont St Martin, è salito due volte sul Cuvignone, di seguito, tu sarai ben capace di fare, partendo da Cittiglio, e una volta soltanto, la salita in meno di mezz’ora?” Così mi è presa la fissa mentale, il trip: avrei dovuto farcela, se no mi sarebbe capitato qualcosa di brutto. Sì, diobono, ora mi pento, ora che qualcosa di bruttissimo mi è successo davvero… eppure ho fatto il record… però sì, ve lo devo raccontare, perché voi vedete solo la mia punta ma sotto c’è l’iceberg dei miei pensieri, mute ragioni che muovono alla pazzia. Il mio miglior tempo, prima di stamani, era appena sotto i cinquanta minuti. Come avrei potuto migliorare così drasticamente?
Sono partito come un furia. Per solito, prudentemente, attacco adagio e vado su in progressione. Non potevo: dovevo partire a razzo. Ma il Cuvignone s’impenna subito, un muro nella zona delle ville, così ho cominciato a vederci doppio dopo dieci minuti. Sudore, fitta alle gambe, dolore pungente al fegato e alla milza. Non sarei arrivato neppure a Vararo. Prima del paesello a metà dell’ascesa, una strana sensazione, proprio nel tratto più aspro, che precede il breve pianoro del rifugio: un calo di fatica, una sforzo più sopportabile, quasi che il mio fisico –allenato ma non per quelle medie- si fosse fatto una ragione della mia follia e la assecondasse. Questo mi ha tradito. Mi ha fatto transitare da Vararo con l’illusione che avrei retto lo sforzo. Eppure lo sapevo, lo sapevo benissimo che il falsopiano che conduce al passo è falso come Giuda, è salita vera spacciata per lieve pendio, è inganno, intuisci la meta ma la meta s’allontana col tuo avvicinarsi. Un atroce miraggio. Una beffa.
La faccio breve, sto morendo, la sintesi è vitale. Voi mi troverete disteso per terra, una clavicola rotta, noterete che sono senza casco (lo metto solo in discesa) ma la causa della mia morte non è un trauma cranico, neppure l’ho sbattuta la testa sull’asfalto; vedrete strisce di sangue secco sul gomito, sbucciature sul ginocchio destro, null’altro, perché un cuore lacerato non si nota a vista d’occhio. I più accorti sentenzieranno: “Infarto!” e avranno ragione. I più sarcastici diranno: “Che fesso! Fosse stato al Giro d’Italia, fosse stata la sua professione, almeno ora avrebbe la pensione per causa di servizio. Ma si può morire così? Magari s’è pure dopato, questo ciclista della domenica.” Già, oggi è domenica. Qualcuno lancerà un fiore. Gradirei fosse una donna, una bella miss da Giro d’Italia, un bacio a destra e uno a sinistra.
Soccorsi, non allarmatevi: ormai è finita.
Vorrei passasse agli atti che sono morto per un capriccio, una sfida, scendere sotto i trenta minuti da Cittiglio al Cuvignone. Come Claudio Chiappucci, il Diablo.
Ho chiuso tutto con una morte stupida. Ma di morti intelligenti non ne conosco neppure una.
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