martedì 9 agosto 2011

Il racconto del mercoledì

Il fuoco di Barbara

Lo guardò con attenzione. Si convinse ch’era arrivato il momento.

“Tu sai cos’è la nostalgia, vero?”

L’amico, che ancora stava ravvivando il fuoco, si girò lentamente, con un sorriso d’intesa.

“La nostalgia...se sei solo t’uccide.”

L’amico non sorrideva più; fece un cenno col capo e si sedette al suo fianco.

Era un tramonto di inizio settembre al rifugio Vicenza, casa di pietra a metà fra i due Sassi delle dolomiti, quello Lungo e l’altro, Piatto. Davanti a loro l’alpe soffiava verso le cime di dolomia un profondo respiro.

“La nostalgia ammazza? Tu non sei solo.”

Il fuoco saliva, scoppiettava, scaldava e dava luce, una luce utile più tardi, quando il sole sarebbe affogato oltre lo Sciliar.

Al rifugio erano cinque in tutto, tre dentro e due fuori, vicino alla fiamma.

“Sei mai stato a donne? Dico... a puttane?”

L’amico si sorprese per la domanda ma neanche tanto, conoscendolo; sapendo dei suoi silenzi e delle sue parole improvvise, delle sue sicurezze e dei suoi abbandoni. “Non si poteva” disse.

“E dopo?”

“Dopo è arrivata Giulia.”

“E dopo?”

“Dopo che?”

“Tua moglie ti basta?”

L’amico lo mandò a quel paese. S’alzò, mosse la brace, soffiò sul rosso, si scansò e si risedette.

“Io mai...a puttane mai...poi l’altra sera...”

“L’altra sera?”

“Era notte, rientravo da una cena. Mezzanotte o poco più. Ho visto un fuoco al Campaccio, ho pensato che lì non li avevo mai visti, i fuochi. Pensavo e ho fatto un po’ di strada. In quel po’ ho visto soprattutto che sarei rientrato a casa, solo. Ho frenato. Ho girato, mi sono avvicinato. Avevo il cuore a mille. Un abbraccio...per un abbraccio solo, un pezzetto di corpo caldo, per un bacio sarei andato con chiunque. Volevo solo una carezza, la nostalgia di una carezza...tu non puoi capire. Hai detto che Giulia ti basta, non dire di no.”

L’amico non negò.

“Erano in due, una in piedi e l’altra seduta, vicina al fuoco, maneggiava il fuoco. E cantava. Quella in piedi trattava ma io ho guardato subito quell’altra. Era più bella...cantava. Musica straniera, parole straniere. Un canto…riempiva la notte.”

La notte stava scivolando anche lì, sopra i duemila, ad oscurare un cielo senza un ricciolo di nuvola.

“Sai a cosa ho pensato?”

“A Barbara” disse l’amico.

“A Barbara ho pensato, a Barbara.”

Guardò verso l’alpe di Siusi ma in realtà avrebbe dovuto girarsi, oltrepassare la forcella del Demetz, scendere al passo Sella e poi a Canazei e correre giù per la val di Fassa e poi la val di Fiemme e, a Predazzo, svoltare a sinistra su su fino al Passo Rolle e giù giù fino a San Martino di Castrozza, all’albergo Fratazza, citato persino da Arthur Schnitzler nel romanzo ‘La Signorina Else’, perché lì molti anni prima andavano in vacanza ai monti lui e i suoi amici, anche l’amico che ora lo guardava in attesa. A San Martino aveva conosciuto Barbara. A San Martino, ai piedi delle Pale, all’ombra del Velo della Madonna, la Madonna non gli aveva fatto la grazia. Nessun miracolo per lui.

C’era legna infuocata e nera lì al Vicenza, altra legna nella bassa padana, dalle puttane, ma fuoco e canti e calore e gioia e tutta una vita davanti c’erano soprattutto allora, al Fratazza. C’era una chitarra e chi la suonava, si imparavano canzoni e ce le si cantava addosso, per dire che non si aveva paura di nessuno, che gli altri dovevano sentire la loro foga d’esistere, che il canto era solo un pretesto per ballare, per darsi la mano, per toccarsi e per immaginare il bello del poi.

C’era Barbara, la sua Barbara. Soprattutto lei, ora più grande della parete del Sasso Lungo, di tutte le Odle, del Sella e della Marmolada unite in amore; gigantesca anche allora, la prima volta in val Cismòn, ma a quell’età che si capisce? Si buttano tesori in latrina, si confonde l’oro con la buccia di limone; una litigata, una gelosia da ridere e sei annebbiato, arrivano le nuvole, non vedi più niente e pensi che tanto, a quell’età...di Barbare ne trovi dietro ogni cantone...così quell’anno, quell’estate, in ordinaria dalla naja a Bassano, era andato proprio al Fratazza. Aveva scelto una sera di bivacco per sbagliare, al bivio.. Stavano seduti schiena contro schiena, a lui il fuoco bruciava la guancia destra, il gruppo cantava, fu costretto ad urlare per dirle che ci aveva pensato bene, che sarebbe stato meglio per tutti e due, che non se la sentiva. Lei s’era alzata di scatto. Lui aveva perso l’appoggio, era caduto all’indietro, goffo, con un sorriso ebete. Gli altri cantavano, non Roberto, che la guardava anche sin troppo, se la godeva già con gli occhi. Barbara non aveva pianto subito, s’era messa a parlare proprio con Roberto, poi con le amiche. Aveva anche cantato intorno al fuoco. Le lacrime le aveva regalate al letto, più tardi. La rabbia gliel’aveva sputata in faccia sul ghiaccio della Fradusta, vento, neve e la tempesta di lei che montava. E poi lettere, e anche lui scriveva perché era convinto e argomentava la sua tesi di abbandono. Per il loro bene. L’anno dopo, a pochi metri dal rifugio Rosetta, la vide per la prima volta mano nella mano con Roberto. Non provò indifferenza, non provò gioia ma neppure invidia, rabbia, disperazione...nostalgia...quelle sarebbero arrivate dopo, molti anni dopo.

“La vedi? Vi vedete qualche volta?” chiese l’amico.

“L’ho vista nel fuoco, la sera delle puttane. Vuoi che te lo dica? Eccola, eccola in quelle fiamme” e le indicò. “Ho le allucinazioni. La nostalgia fa impazzire. E la solitudine...”

Il grande silenzio dei monti schiacciò le ultime parole. Il gestore del rifugio uscì, il bicchiere di vino in mano, il mento barbuto teso verso le briciole del tramonto, sciolto nel buio. “Bel fuoco!” disse, poi alzò il bicchiere come per un ‘alla vostra!’ ma fece silenzio e gustò la bevanda. Rientrò.

Cominciava a far fresco. Neppure il fuoco bastava più. Sarebbe stato necessario alimentarlo, accenderne altri ma l’amico stava seduto, muto come è muta la roccia, che può far urlare.

“Quegli anni...belli le balle! Se sbagli sei fregato, per la vita, e la vita è lunga, se soffri... la vita non finisce più. Se sei solo...”

“Non sei un alpinista?” disse l’amico. “Lupo solitario.” Sperava di dargli un po’ d’aria ricordando le loro scalate e il capocordata era lui, quell’uomo ora piegato nel tentativo di ridar fiato al fuoco.

“Entriamo, va là...”

“Hai fretta?” disse l’amico. Non era ancora il momento. Dovevano stare all’aperto perché il magone potesse quietarsi.

“Poi con la puttana ci sono andato. Ho pensato a Barbara, mi sono fatto coraggio...” Avrebbe pianto, rise e piazzò un pugno al rallentatore sulla spalla dell’amico.

S’alzò, si stirò verso le cime, buttò un po’ d’acqua sulla brace, a fatica riuscì a distinguere il poco fumo che scodinzolava verso le stelle, si mollò qualche schiaffetto sulle guance e prese la direzione del rifugio. L’amico seguì il capocordata.

Nella sua mente, ora, la camera più bella era pronta per Barbara. Forse l’amore per le montagne l’aveva fregato. O forse era solo questione di destino, di sfortuna, di coincidenze o di una frase che si dice in un modo ma si sarebbe potuta recitare in un altro. E tutta una vita cambia direzione. Un bivio: si può andare di qua e di là. Come quando si arriva alla forcella fra i due Sassi, salendo dal rifugio Vicenza. Si può andare a destra, ferrata Schuster, percorso facile, agevole cima del Sasso Piatto, oppure a sinistra, più difficile, da esperti, verso il culmine del Sasso Lungo.

Prima di chiudersi la porta del rifugio alle spalle, respirò in un lungo fiato tutta l’aria fresca della val Gardena.

Alla sua Barbara regalò una buona notte speciale.

Ho anticipato ad oggi, martedì, il racconto del mercoledì perché sarò via tre giorni. I miei lettori avrebbero, senza traumi, anche perso un mio racconto settimanale, ma io sono un tipo abitudinario.

Il presente racconto è già apparso sulla rivista 'Confini' - settembre 2007

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