martedì 31 maggio 2011
La spiaggia di San Michele
Alba
sabato 28 maggio 2011
La fisarmonica di Katerina
Fra tango e can can
La danza del ventre
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
Nota introduttiva.
Anticipo ad oggi il Racconto del mercoledì, perché mercoledì prossimo sarò al mare. Non avendo foto di una moto Morini, ho scelto una Moto Guzzi d'antan. Naturalmente, come tutti i miei racconti, anche questo è frutto di pura invenzione, ma di quell'invenzione che s'abbevera dei ricordi. Dal nulla non viene nulla, da una delusione d'amore può anche ricamarsi un raccontino simpatico.
LA MOTO
L’ho visto arrivare con il suo Morini quattro tempi, a benzina, bianco e rosso. Ma già sapevo chi era: urlavano il suo nome i quattro cilindri, voce amplificata dalla cassa armonica della testata d’argento di quella sua moto superba. Gliela invidiavo dal vetro del fanale anteriore al catarinfrangente sul parafango posteriore; invidiavo il suo possedere la velocità. Franco era il più ricco fra noi, la sua moto lo testimoniava. Avevamo l’età del cinquantino, non di più, ma i quattro tempi regalavano a quel Morini la dignità di una moto da adulti.
Franco è arrivata nel nostro cortile, senza casco, con aria distratta e superiore, come di chi non immagina il perché del nostro accerchiarlo. A lui la moto, a noi le briciole di bici senza cambi e tante moto cavalcate di notte, nel letto, dentro un sonno da figli del dopoguerra.
Noi intorno alla moto di Franco, e Franco a sorridere, portando la buona novella: “C’è una partita di calcio alla chiesa…ci aspettano.”
Il campo della chiesetta. Di campi da pallone ne calpestavamo almeno cinque: il cortile di casa mia, l’oratorio, il castello, il pratone e quello della chiesa di San Celso, che non era il più bello ma sempre meglio di un sagrato di casa popolare, con sassi e terra.
Mi stavo dirigendo in cantina per recuperare la bicicletta quando la voce di Franco, roca come avesse imparato l’intonazione del Morini, mi ha preso per il bavero: “Salta su” mi ha detto. “Tu vieni con me.”
Era la prima volta su quel sellino.
“Grazie” gli ho risposto, e mi sono accomodato.
Volavamo Franco ed io verso il campo della chiesa, lui sicuro nella guida, con accelerate da spavaldo, io intimorito ed estasiato, dentro un pomeriggio d’estate che mi aveva fatto sudare e che adesso, nel fresco del viaggio in moto, trasformava il sudore in piacevole frescura su tutto il corpo.
“Ti sta aspettando una ragazza…vuole vederti” ha detto Franco ad un certo momento, quando mancavano ancora cinque minuti di viaggio. Dentro quell’aria in movimento e il ruttare del motore Morini, la notizia mi ha fatto impazzire il cuore.
Volavamo verso il paradiso io e Franco, un eden popolato ora non dalla disfida calcistica, ma dall’immagine di una ragazzina (Franco l’aveva definita carina) che mi stava attendendo vicino alla chiesa. Una donna interessata a me, che mi voleva vedere, che mi avrebbe parlato perché –non potevo dubitarlo- certamente le piacevo, mi aveva incontrato chissà dove, o aveva saputo di me da qualche altra ragazza.
In quei pochi minuti ho ripassato ogni volto probabile e assaporato le più invitanti emozioni. Me la immaginavo bella, bionda, occhio chiari, perché uno non può prevedere di essere accolto da una ragazza brutta, cioè non degna di una simile attesa.
Il cuore cantava, mi mancava il fiato, appoggiavo la guancia sulla schiena di Franco, lo cingevo alla vita grassoccia e sognavo quel sogno finalmente reale. Un sogno meno illuso e più in carne ed ossa.
Il solo fatto d’aver suscitato un interesse femminile mi inebriava. Mi sentivo sicuro e interessante, avrei affrontato l’incontro con inevitabile emozione ma sarei stato in grado di reggere il confronto, di offrirle il mio meglio.
“Ma tu la conosci?” ho urlato a Franco, senza ottenere risposta.
Silenzio, mi frullavano immagini condite da gioie mai assaporate, un languore amoroso che mi struggeva. Il pallone non aveva più senso, meglio, la partita sarebbe stata momento di gloria per sorprenderla col mio gioco, affascinarla; lo si sapeva che ero sempre fra i primi ad essere scelto, quando i capitani faceva bimbumbam e ci si spartiva per squadre.
Così siamo arrivati al campo della chiesa: poca erba e molta polvere, un sole là in cima che abbagliava, radi alberi che proiettavano ombre striminzite.
Franco si è diretto verso un tiglio: “La posteggio qui sotto” mi ha detto. “Salta giù.”
Sono sceso di sella, accompagnato dagli ultimi versi del motore. Avevo già perlustrato la zona, da tempo indagavo sulle presenze in quel luogo. A bordocampo nessuno, mentre sul terreno di gioco era già in corso una partita. La palla volava e strisciava, rimbalzava e saltellava senza un lamento, nonostante tutti quei pedatoni.
Non s’era mai vista una ragazza, e più ancora una bella ragazza, giocare a pallone coi maschi. Ma se non era là in mezzo, nella terra e nel sole, dov’era?
Allora ero ingenuo ma lo sono anche adesso, a voler raccontare una storia di così poco interesse. Ho sofferto notando che lì, vicino alla chiesa, si contavano unicamente ragazzi, sudati e sporchi, agitati e col solo interesse di fare un gran gol, quando Dio aveva creato la donna per regalare paradisi terrestri.
E’ arrivato Franco, non alto ma grasso, non bello ma ricco, ancora innocente a quel punto.
“Ma la ragazza?” gli ho chiesto. “Dov’è?”
“La ragazza….ah, già, la ragazza…” e si è messo a ridere.
Franco non era il mio amico del cuore. Forse lo sarebbe diventato. Ci stavo pensando quando, insieme, cavalcavamo sopra la groppa del Morini. Non so perché ha inventato quello scherzo, perché ci ha messo di mezzo l’amore, il soffrire d’amore. Eppure aveva un anno più di me e, oltre alla moto, filava con le ragazze più belle. Doveva sapere. Immaginare. Prevedere la mia tristezza insanabile. O forse i soldi rendono lecito far piangere un compagno di giochi, dopo averlo trastullato nell’illusione più atroce?
Ho dato un solo pugno sinora. A Franco. Quel giorno. Sul naso. E se sangue c’è stato non mi ha mai fatto pena.
venerdì 27 maggio 2011
Grazie, Roberto
Nuovo appuntamento per il Memorial Aletti
Staccar non nuoce

Nonno Mario con bastone
giovedì 26 maggio 2011
Regalo
Musica: linguaggio universale
mercoledì 25 maggio 2011
E il gallo cantò
Resistere
La mia prima bici
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
IL VENEZIA
Ma perché mai un lettore dovrebbe perdere il suo tempo, leggendo questo breve racconto? Subito detto: per incontrare il Venezia. E per incontralo non avete che me. Lui, il Venezia, nulla ha lasciato di scritto, niente immagini televisive, niente registrazioni audio. Solo il sottoscritto, con la traballante potenza del suo ricordo. E perché proprio il Venezia merita un racconto? Perché era un buono, e se ci teniamo ad impratichirci in questa qualità morale, allora ci farà bene sapere di lui.
Il Venezia…mamma mia, se ci penso sento ancora in pancia l’emozione per quel suo gesto elementare e stupefacente. E vedo soprattutto la sua di pancia, prominente dentro una tuta da meccanico, ventre che ancor più evidenziava l’unto del suo lavoro. La tuta era blu carta da zucchero, con macchie di grasso e nera sull’addome, dove preferibilmente si sfregava le mani. Un baschetto anche quello blu e un negozietto in fondo alla via, un locale unto e bisunto ricavato dentro un palazzotto cadente. Fra il suo negozio e il mio quartiere stava, nel mezzo, centralità del sapere, la mia scuola elementare.
Riparava biciclette e motorini il Venezia, ma il lavoro non era tanto nemmeno allora, dato che il suo addome esagerato spesso sbucava dalla soglia del negozio, a dire che non si stava ammazzando di fatica. Però qualcuno si lamentava che le riparazioni le eseguiva con calma, al limite del tempo massimo.
Perché lo chiamavamo il Venezia lo si sarà capito. Allora usavamo quel termine per due categorie di individui: quelli che giocando al pallone non passavano mai la sfera (ma non era il suo elenco) e quelli come lui, emigrati dal Veneto in cerca di lavoro, quasi subito costretti a spartirsi il pane con i fratelli del meridione d’Italia. Due povertà che trovavano nella mia città del cibo, un lavoro e aria senza troppi inquinanti.
Ma la faccio breve perché ciò che conta è quel gesto, quella scelta, quel sorriso tagliato dentro una faccia grossa e rossa come un’anguria divisa a metà, con quella coppola che lì in alto soffriva di vertigini e pareva sempre sul punto di cadere. Perché il Venezia, come molti veneti, era alto di statura.
Dio mio, se ripenso a quei tempi…già, ma non cado nel tranello, erano belli perché era bella la giovinezza: tutto qui. Ma stiamo al riparatore di bici. Avevo sette anni, seconda elementare e una bici non adeguata: io non ero un gigante, ma quella bici era da nani. Mi accontentavo perché mi portava per il cortile di sassi dove volevo, e se tiravo coi pedali sentivo l’aria in faccia e mi pareva di andare veloce. Non ero prudente, come ogni bimbo sopravalutavo le mie abilità e sottostimavo i rischi. Le mie ginocchia parlavano chiaro. Ma quel giorno si fece male anche lei, la bicicletta. Una curva mal condotta mi buttò contro lo spigolo del palazzo e a terra. Non piansi perché avevo una compagna di scorribande, si chiamava Patrizia, mi piaceva e qualche volta riusciva a stare al mio passo. Non quel giorno. L’avevo staccata inesorabilmente. Fu brava Patrizia, non rise di me. Avevo sangue e abrasioni, ma soprattutto una bici con il manubrio storto e un cerchione che toccava sulle forcelle.
“Mia mamma mi ammazza” dissi a Patrizia, con un mezzo magone.
“Perché non vai dal Venezia? Se vuoi ti accompagno” disse Patrizia.
Mi parve una follia. Avessi dato seguito a quel piano e fossi stato scoperto, sarebbe intervenuta anche la furia di mio padre. Ma c’era Patrizia con me.
“I tuoi ti lasciano uscire dal quartiere?”
“No” disse la ragazzina.
“Nemmeno i miei.”
“Andiamo” e Patrizia mi prese per mano.
Cercai per un tratto di mantenere l’estasi della mano di una ragazza e il trasporto della bici, ma fui costretto a sganciarmi. Il trasporto mi obbligava ad usare entrambe le mani, sollevando la ruota anteriore che non girava.
Il Venezia era là, con la pancia di fuori e la Nazionale senza filtro che pendeva dalle labbra, la barba di tre o quattro giorni e il sole basso negli occhi.
Mi vide e parlò: “Ti conosco…tuo padre non è quello che abita al quartiere?”
Dissi di sì, sapevo che conosceva mio padre, non ero sicuro che si ricordasse di me.
“E questa ragazzina? E’ la tua fidanzata?” chiese il Venezia.
“Sì” rispose Patrizia.
Secondo me non era vero, non so perché lo disse, non fu mai la mia ragazza, forse in quel momento le andava di fare la grande, la già impegnata con un ragazzo che, diciamo la verità, non era il peggio del quartiere.
“Vieni qua” disse il Venezia, notando i miei graffi e la bicicletta. “Non c’era nessuno in casa?”
A me le bugie uscivano a rilento, per questo Patrizia prese di nuovo la parola: “Nessuno, allora abbiamo pensato di venire da lei.”
“Bravi….qua che ti pulisco un po’” e mi fece entrare nel negozio, un antro senza luce, sporco. Sapeva di ferro e di grasso, irranciditi dalla muffa. “Siediti lì.”
Le parole del Venezia dovete immaginarle con inflessione veneta, sporcate con qualche frase in dialetto stretto, che non capivo.
Fece finta di lavarsi le mani con un pezzo di sapone di Marsiglia annerito dal grasso, dentro un lavandino di metallo piccolo piccolo, con un rubinetto dalla manopola a forma di fiore. Prese dell’alcol e del cotone idrofilo e mi disinfettò alla meglio.
“Sua mamma lo ammazza” disse Patrizia, indicando con la mano e lo sguardo la bici contorta.
“Lo so” disse il Venezia, che si mise all’opera e raddrizzò manubrio e cerchione con una sveltezza sorprendente.
La bicicletta era in ordine e avevo conquistato Patrizia. Almeno di questo mi illudevo, dopo aver salutato, ringraziato ed essere risalito in sella per non farmi staccare da lei.
In realtà non avevo conquistato una ragazza, avevo forse capito che comandano le donne, e anche il mio procedere dietro Patrizia, verso casa, diceva di una certa sottomissione. In verità ero stato conquistato dal Venezia. Ma l’avrei capito molti anni dopo.
Patrizia me la sono dimenticata, lui no. Il ricordo del suo sorriso buono credo mi abbia salvato dagli eccessi di cattiveria e di egoismo, permettendomi di mantenere un sufficiente livello di buona creanza. Oggi, che so quale gioia si prova a far contento un bambino, riparandolo dalla violenza degli adulti, posso leggere sino in fondo quel sorriso, tagliato dentro una faccia rubiconda e sporca, grande e rotonda come una rossa anguria, divisa nel mezzo.