Il sabato sera vincente porta il nome di Eugenio Scalfari, già direttoreditore di Repubblica, giornalista, scrittore, intellettuale colto, fin troppo consapevole del suo successo. Successo che è stato confermato da una sala stracolma (è arrivato a Varese per il Premio Chiara), dalle molte attestazioni di stima (al limite della venerazione), dagli applausi. Un vincente, che ha avuto la fortuna di arrivare ad 85 anni in salute, mente fresca e nessun bisogno di Dio. Nemmeno quando ci si approssima alla meta. Bhè, questa, del non bisogno di Dio, per me non è una fortuna. Non conoscevo Scalfari come oratore, non sono un suo lettore, ci sono andato curioso. Anche perché parlava di scrittura. Me ne torno deluso. Anzitutto perché di scrittura, del mestiere dello scrivere ha parlato poco. E poi perché resto deluso, lontano, guardingo verso gli intellettuali troppo certi delle proprie certezze, troppo carichi di amor proprio. Preferisco chi si mantiene alla ricerca di un senso ultimo, e non si accontenta di "segmenti di senso". Una cosa mi è piaciuta: quando Eugenio 'il grande' ha parlato dei libri come mezzi atti ad esorcizzare la paura della morte. Ma non è certo una sua intuizione. Insomma: non mi unisco al coro dei plaudenti. Troppe arie da primo della classe.
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