venerdì 30 settembre 2011
Enrico il camminatore
Il tempo di abituarsi
Saluto (al) Romano
giovedì 29 settembre 2011
Essere prof di ginnastica non basta
mercoledì 28 settembre 2011
La ricetta di Kouchner
Il mal d'autunno
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
LA STAZIONE
Necessito dei ricordi come dell'acqua. O forse potrei farne a meno ma sono loro a chiamarmi, voci lontane e penetranti di mitiche sirene. Non posso affermare da convinta che vivo quel tanto che serve ad accumulare altri ricordi; esagererei, per quanto ogni eccesso contiene una scintilla di verità. I ricordi sono la mia vita, in parte la costituiscono, la rendono di volta in volta più piacevole o più melanconica. Non di rado, nel timore d'esser già vecchia, li scaccio in malomodo, o più educatamente li ripongo, li evito, perché ho anche tanto da fare, di interessante e di noioso, che nulla divide con quanto ho già vissuto.
Ma vi sono giornate che paiono votate alla memoria. Mi levo con una tale predisposizione alla nostalgia che il corpo si fa spugna, s'inzuppa di ciò che è stato e non è mai semplice, né indolore, convincerlo che i sogni sono amici incompleti, offrono un calore così fuggevole, una gioia così triste al risveglio, che non è un buon affare assecondarli sino alla delusione. Eppure queste giornate fanno parte della mia esistenza. Oggi, infatti, ci sono caduta dentro. Per questo sto camminando verso la stazione. Alla ricerca del profumo di Marco.
Ecco il sottopasso: scendo, fra poco il buio e le scritte. Allora, oltre vent'anni fa, ventitré per l'esattezza, erano assai meno questi fratelli neri, con le loro mercanzie, con le loro timide pretese.
Finalmente la scala in salita, la luce; anche oggi, forse più d'allora, provo il timore di stare qui sotto, sola, benché sia ora di punta. O è la paura d'esser rimasta orfana, lungo il viale dell'approdo?
I gradini, il sole, il vento che già s'è impadronito di marzo, la discesa fra due ali di platani e, sulla sinistra, la stazione: direi che ben poco è mutato.
Dio, che impressione pensare che i muri possono resistere più a lungo di me! Questo rigido blocco di porfido sopravviverà al mio sonno. Qui tutto si è conservato, eccezion fatta per la precaria tettoia là in fondo, deposito di biciclette e motorini. Hanno spianato, ne ha tratto giovamento il panorama. Si vede sino alla foce del viale, al di là del palazzo moderno, già edificato ai tempi di Marco. Con questa visuale allungata avrei riconosciuto il pullman qualche attimo prima.
Il sasso si conserva, assai meno il mio corpo. Se mi vedesse oggi...smorzato il panico della maturità, non l'ho mai più incontrato. Eppure, dalle fonti che ho qua e là rubato, abita sempre nello stesso paese, forse nella medesima casa.
Sono alla panchina. Mi sedevo o l'attendevo in piedi? Come avrei fatto, mio dio, a star seduta? Il tempo l'avrei avuto perché m'appostavo qui con almeno dieci minuti d'anticipo. Era, dal mio arrivo, un andirivieni da sentinella: seduta, in piedi, uno sguardo alla via, un secondo all'orologio (eccolo, tal quale, sopra di me), un terzo verso l'edicola, poi quattro passi sino a scorgere le rotaie. Giungeva un attimo prima di lui il treno delle sette e ventotto, intasato di studenti. Oggi sono più colorati, almeno epidermicamente policromi. Non so dentro. Dico degli studenti, con i loro zaini, i paille, le giacche a vento, i maglioni. Si usava, ai tempi miei e di Marco, lo zainetto militare, ben poco capiente; metà libri e i vocabolari trovavano alloggio sottobraccio, fasciati o no con gli elastici. Lui reggeva in spalla uno zaino sdrucito. Ricordo ancora le scritte, ad una ad una, e dov'erano collocate sullo sfondo grigioverde.
Ora mi siedo. Oggi riesco a star ferma sulla panchina, interpreto in me l'agitazione, sedàta ma vigile, del ricordo: di Marco e di quell'età. Solo gli occhi formicolano, come allora formicolava il cuore. Guardo là in fondo, verso il palazzo di dodici piani, verso un improbabile automezzo. Il pullman girava a sinistra, faceva le carezze alle foglie degli ippocastani e si fermava dinanzi alla mia attesa. Mai che fosse puntuale; ritardava sempre, ma non oltre i quattro minuti: del resto, di più non sarei stata in grado di resistere. Sole eccezioni i giorni di neve e di sciopero, giorni, per me, di lutto.
Camminavo e scrutavo, con dentro...oggi, di quel benefico spasimo, è rimasta l'impronta. Forse sono cattiva, ingiusta. Forse i ricordi conoscono l'arte dell'inganno: rubano aria al presente e riconsegnano un passato poco veritiero, incredibile. Dire impronta, o dire ombra di quel cuore in festa è troppo poco. Una differenza c'è, e netta, ma ha più attinenze con la naturalezza, la spontaneità.
E chi se l'era andato a cercare Marco? Dico Marco per affermare tutto ciò che, con lui, era filtrato nel mio cuore ancora imperfetto (ammesso che, oggi, sia meno precario di allora).
Ricordo un lento e insieme violento penetrare di quel ragazzo dentro la mia voglia un po' artefatta di studiare per imparare, per far carriera, per riscattare un ruolo...Marco possedeva le chiavi, ha aperto il mio futuro, ha scombinato le carte, ha mutato l'ordine dei valori, mi ha inconsciamente offerto sentimenti ignoti. Quel ragazzo, il più bello, resiste, come è vero dio che m'ha trascinata qui, sospinta dalle folate di marzo, nei luoghi dei nostri quotidiani incontri.
Oggi è diverso. Non dico più bello o meno bello: dico solo diverso. I miei piedi sono incollati a questo asfalto che avranno rinnovato almeno dieci volte. Allora consumavo le suole...dietro a lui.
Affermare che oggi non ho attese, non ho speranze per il domani, non ho modeste eccitazioni sarebbe ingratitudine verso la mia maturità di donna attempata. Sono sentimenti necessari, vitali e per questo li ricerco: per necessità. Perché la vita si spegne e se non hai pronto un nuovo lume, se il buio ti convince che comanda un solo padrone, sei condannata alla resa. Scappare o corrergli incontro, mai aspettarla seduti, con il capo che ciondola, senza scintille di luce, come s'attende un pullman sfogliando, senza interesse, una rivista di moda. La mia maturità è l'arte d'accendere piccoli lumi, e quando son tutti smorzati è il tempo di scendere quaggiù, alla stazione. Ad attendere il pullman, ma con interesse, senza il profumo di morte di quattro fogli di carta patinata.
Lui stava seduto immancabilmente sul fondo, con gli amici; pareva lo facesse apposta, sapeva che la nuvola bigia del fumo non mi consentiva di vederlo oltre il vetro. Questione di pochi attimi ma a quell'età si è intransigenti, si hanno molte pretese, non si ha pazienza. Si è tremendi. Si ha l'idea che qualcuno ci stia strappando la vita, si sia impadronito di noi, della nostra totalità, e così ci si vendica con l'arma della pretesa. Sono queste le gocce di dolore, che in me nascevano insieme alle lacrime. Perché si piange a quell'età, molto, e per un niente. E di seguito si scopre la gioia del riso. E se sono qui è perché ho voglia di ridere, e insieme di piangere.
Ecco un pullman. Allora era blu carta da zucchero, goffo, sporco, malcurato, con qualche traccia sin troppo opprimente del dopoguerra. Questi nuovi sono azzurri, metallizzati, più in linea, lucidati di fino. Per certo percorreranno la tratta in minor tempo anche se il traffico è, ne complesso, più consistente di quei tempi là. Il cartello, però, è sempre uguale, alloggiato sotto il volante: stessi caratteri, medesimi paesi elencati.
Conviene che mi alzi, che gli vada incontro, a tempo con questa irrisoria tachicardia, che pure ha iniziato il suo canto profondo. Precisamente come sulle tracce di Marco: procedevo a piccoli passi, veloce né più né meno come il mezzo intento a frenare, a curvare, a guadagnarsi lo spazio del posteggio. Io mi facevo sotto, così, sapendo che lui sarebbe disceso fra gli ultimi. Attendevo, salutavo i molti visi noti, sorridevo a qualche battuta, tipo 'Arriva, Ha parlato di te, Non ha studiato un c...'. Infine lui. Ogni mattina uno scoppio diverso, un'emozione mai identica.
Ma quell'uomo...Stai calma, avvicìnati...Impossibile! Tranquillìzzati, è di spalle, certo non hai visto bene, hai travisato. L'altezza è la sua, ma il mio Marco era magro, un'acciuga, anche troppo, tanto da farsene un complesso. Ma a vedergli i capelli, dal dietro, sono grigi oggi, non ne ha perso uno...Che faccio? Devo rubare il colore dei suoi occhi. Ma quell'uomo va di fretta, per raggiungerlo dovrei mettermi a correre. E' il caso? Mio dio, che ci sono venuta a fare alla stazione? Corro, sì, voglio correre. Che penserà la gente? E anche a correre, lui somma passi da atleta. Ma che fa? Non prende il sottopassaggio? Evidentemente no, preferisce attraversare alla luce. E se scendessi io? Guadagnerei giusto il tempo...per svelare il mistero.
Ma a che serve risolvere il caso? Stùpida, ragiona. Non vuoi ragionare, lo so, ma ti è necessario.
Io corro, lo voglio vedere. Parlargli, sapere, raccontare ventitré anni di vita senza di lui. E' un diritto dell'anima.
E dopo? E' stupendo narrare, ma in fondo? Che resta?
Io corro.
Fai pure.
Io volo.
Sai che il cuore può indossare le ali. Ma tu, che hai studiato al liceo, conosci le ali di Icaro.
Di quegli anni lui m'è rimasto. I libri, come sai, li ho tutti venduti.
Che aspetti allora? Vai. Non vedi che sta attraversando?
Lo vedo.
Dunque?
Lui non può essere.
Io invece te lo confermo: è lui, è Marco Ferri, sesto in elenco. Ma che fai? Lo saluti?
Saluto.
Qua la mano. Fra qualche giorno ci torni. La stazione, come vedi, è ancora al suo posto. Nulla è mutato.
Questo mio racconto è tratto dalla raccolta FAX D'AMORE (Macchione editore marzo 1998)
martedì 27 settembre 2011
101° Brinzio in bici
E i ricci?
Festa dell'oratorio
Andrea, proprio lui
lunedì 26 settembre 2011
Sergio detto Zagor
Grande Romina

Passatempo
domenica 25 settembre 2011
Umana invenzione
Le poderose braccia di Marco
LE PODEROSE BRACCIA DI MARCO
Questa mattina il lago di Varese sarà ‘accerchiato’ da due competizioni amatoriali contemporanee: il giro podistico del lago e la gara per atleti diversamente abili ‘Tre ruote intorno al lago’, entrambe di 25 chilometri. Organizzata dalla mia amica Daniela Colonna Preti (anima della Polha Varese) e dal Gam Whirlpool, la manifestazione mette a confronto gli amanti della corsa e coloro che –volente o nolente- hanno dovuto amare la carrozzina, sino a farne la compagna di una vita, capace di miracoli. Gli atleti disabili possono utilizzare sia la carrozzina da atletica (spinta sulle ruote) che la hand-bike (pedali spinti a mano), e qui voglio dire un paio di cose. La prima: il mio grazie verso tutti coloro che, con la loro disponibilità, permettono lo svolgimento di una gara di questo tipo. La seconda è invece un ricordo. Anni fa venni a sapere che il mio amico Marco Re Calegari, grande atleta paralimpico (in foto, da Google immagini), si stava allenando con la sua hand-bike in vista di competizioni a livello mondiale. Chiesi gentilmente se potevo seguirlo con la bici, e lui ben volentieri accettò la mia compagnia. Ci trovammo una domenica mattina a Capolago, la metà era Laveno. La faccio breve: non avrei mai pensato che due braccia avrebbero potuto spingere quanto due gambe. All’andata, con la strada in leggera discesa, ho davvero faticato per star dietro a Marco, che mulinava le braccia come una turbina, scansava buche, altre bici, auto in sosta e ostacoli vari con un’abilità sorprendente. Arrivai sul lungolago con la lingua fuori. Per fortuna il ritorno, un falsopiano in lieve salita, mi facilitò e in alcuni tratti Marco mi chiese addirittura di andare davanti a tagliare l’aria. Fu una mattina molto istruttiva per me; imparai che la volontà fa miracoli, e che le braccia di Marco valevano dieci volte le mie.
La Provincia di Varese domenica 25 settembre 2011
sabato 24 settembre 2011
I passaggi di Laura
Sofferenza
Severino 3
Severino 2
Severino 1
venerdì 23 settembre 2011
Auguri per Lizzola
Sono contento
Grazie, Alberto

giovedì 22 settembre 2011
Sfida a quattro
Record eguagliato
mercoledì 21 settembre 2011
Lectio Magistralis di Emanuele Severino
Più di 1000 volte
Alla fine del giorno
IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
LA CROCE
Siedo di fronte a mio padre. E’ sdraiato a letto, compirà novant’anni fra tre giorni, sopra di lui un crocifisso. Osservo la croce e faccio due conti. L’hanno comperata, lui e mia madre, più di sessant’anni fa in un negozietto della Val Gardena. Non ero ancora nato ma l’acquisto è stato motivo di molte narrazioni quando, ragazzi, sedevamo intorno allo stesso tavolo. Ascoltata due o tre volte questa storia del crocifisso noi avremmo voluto alzarci da tavola, passare ai giochi, sapevamo la trama: mia mamma avrebbe preferito appendere sopra il letto di giovane sposa una Sacra Famiglia e mio padre una croce. Il compromesso era stato raggiunto: la Sacra Famiglia sopra la testa di mia madre, la croce sopra il cuscino di mio padre
Guardo il muro (che avrebbe bisogno di una rinfrescata), della Sacra Famiglia si nota solo la traccia lasciata dalla luce, il contorno di quel quadro che mio padre ha riposto non so dove dopo la morte di mia madre.
Resta la croce.
Non ho mai saputo perché il mio vecchio preferisse già così giovane quei due legni incrociati, con il Cristo gardenese che pende in avanti, perfetto nelle proporzioni, un drappo a coprire il sesso, gli occhi chiusi, nessuna smorfia sul volto. Il loro ripetuto racconto si fermava in superficie. Oggi, se non avesse l’influenza, glielo chiederei. E molto altro domanderei a mio padre ma forse una cosa su tutte, che non è una domanda ma un imperativo: insegnami a morire.
Lo osservo, respira a fatica ma è solo influenza, il medico dice che non c’è pericolo, l’uomo che mi generò porta nei cromosomi la preziosa eredità di una salute che gli invidio. Non è certo in pericolo di vita ma è cotto dalla febbre e non posso domandargli perché mi ha messo al mondo, costringendomi a morire. Perché il venire al mondo non è il nostro problema; il vero problema è come lasciarla questa sfera, gomitolo di dolore.
Apre gli occhi, sorride, tossisce, vuole la mia mano, scotta, la sua mano destra è gonfia, pare un tizzone che arde.
“Và a ca’” mi dice, poi zoppica in altra tosse, non riesce a continuare, mi butta in faccia un mezzo sorriso e socchiude gli occhi.
“C’è tempo” gli rispondo e capisco di volergli bene. Mi fanno pena i suoi pensieri, ad altro non può pensare un uomo della sua età: è qua. E forse riflette su un desiderio che oggi è il mio: ‘Devo sapergli regalare questa certezza. L’ho costretto a vivere, oggi gli dimostro che si può uscire con dignità, soffrendo senza soccombere all’angoscia del nulla.’
La vita è questo quotidiano adattarsi alla morte. E il non pensarci è la sola formula vincente. Ma quando si avvicina e ci presenta il foglio di via, che attesta la nostra resa, fingere di non vederla non è distrazione da uomini.
Perché il mio vecchietto scelse la croce? Per furbizia? Per saggezza? Aveva inteso che era meglio partire per tempo?
“Go cald…damm ‘na gota d’aqua…”
S’è svegliato di nuovo.
“Tieni” e gli porgo il bicchiere, lo reggo per la nuca, lui sorseggia, tossisce. Gli tocco la fronte. Brucia. Gli porgo un panno umido, che se lo tenga in testa, temo che gli vada arrosto il cervello.
“Lasa perd…al servìss a nagòtt”
“Vedi tu” ma forse dovrei essere più impositivo, obbligarlo nonostante il medico minimizzi. Ma a dispetto dell’età difende la totale autonomia. Non vuole dar peso ai suoi figli. Sa di averci già messo sul groppone un macigno. Basta quello. Ma il peso non è quel reggergli il capo e bagnargli le labbra; pesa che lui è solo un anticipo del nostro destino. Una prova.
Prende fiato, raccoglie ciò che resta dell’aria che hanno pensato per lui; la ricaccia di fuori, tramutata in un lungo sospiro che racconta di risposte impossibili: “Se te vöratt fa cusè.”
Lo guardò e sorrido: “Già…”
“A cosa pensi?” mi chiede pochi secondi dopo che la pendola ha battuto i dodici colpi del mezzogiorno e sto pensando che forse è davvero tempo che vada.
A cosa pensi? Domanda inattesa posta da lui, tanto rispettoso dei nostri pensieri da sembrare distratto. Glielo dico? Mi confido? E perché me lo chiede? Mi sono tradito?
“A niente” e subito mi vergogno di quella menzogna.
“Balòss” fa lui. “Vieni qua” e allunga le braccia.
Mi piego in avanti, lui alza le braccia e sfiora la croce, che sobbalza sul chiodo e finisce sul letto.
“Ta vöri ben.” Vorrebbe piangere ma si trattiene. Un padre non piange davanti ad un figlio. Non lo può spaventare.
Un padre è un eroe.
in foto: crocifisso al Passo Pordoi
martedì 20 settembre 2011
Un record per Matteo
Foto non adeguata
lunedì 19 settembre 2011
Perché sei un essere speciale
Cercasi volontari
Alloggia
domenica 18 settembre 2011
Riccardo e l'editore
Matilde
La passione di Gottardo
LA PASSIONE DI GOTTARDO ORTELLI
Il 21 settembre del 2003 moriva Gottardo Ortelli (foto da Google immagini), un artista, un uomo di cultura che molto ha dato al Premio Chiara. E’ stato naturale per me ‘incontrarlo’ giovedì scorso, in occasione della Conferenza stampa di presentazione del Chiara 2011. Perché l’amico Gottardo ha preso in mano questo evento letterario varesino agli inizi degli anni Novanta e per un decennio ha contribuito a farlo crescere. Eppure era nata male la vicenda fra me e lui, a causa di un mio articolo sul settimanale ‘Luce’ relativo all’Accademia di Belle Arti, che Ortelli avrebbe voluto a Villa Toeplitz e che non decollò mai. Chiarimmo a parole e per lettera, collaborammo in alcune iniziative e poi fu lui a chiamarmi, nel 2000, nella Giuria dei Grandi lettori del Chiara, in sostituzione di Marta Morazzoni. Un onore per me, tre anni che mi permisero di avvicinarmi all’uomo e all’artista, di conoscere la sua gentilezza, la sua cultura. Fui lieto quando Gottardo apprezzò molto un mio contributo alla rivista ‘Confini’ del 2001 (rivista che lui dirigeva), una ricerca su Piero Chiara e il suo rapporto con la morte. Forse Ortelli in quel 2001 già sentiva le prime avvisaglie di un male che nel giro di pochissimi anni lo avrebbe sconfitto. Forse si trattava di sensibilità e di partecipazione verso tematiche esistenziali che non si possono saltare a piè pari, buttandosi in un attivismo schizofrenico. Il pittore, docente a Brera, rafforzò le fondamenta del Premio invitando personalità culturali milanesi, coinvolgendo la stampa nazionale, ampliandone gli orizzonti con spazi legati all’arte. Un Premio letterario che si è ulteriormente consolidato, dopo la morte di Ortelli, grazie a Romano Oldrini, Mauro Gervasini, Matteo Inzaghi, Vittorio Colombo e tanti altri, oltre che al lavoro fondamentale di Bambi Lazzati. Ma l’amico Gottardo non si dimentica e puntualmente riappare quando torna il Premio Chiara, a dirmi che le cose si fanno con passione.
La Provincia di Varese domenica 18 settembre 2011
sabato 17 settembre 2011
Dovere e volere
venerdì 16 settembre 2011
giovedì 15 settembre 2011
Premio Chiara 2011
Se non ci si innamora
Pensione
mercoledì 14 settembre 2011
Bravo Alberto
Un premio a chi va in bici
